Quale è stata la risposta istituzionale alla rivolta delle banlieue? Il governo franL’incapacità del media televisivo di inquadrare il fenomeno.
Quale è stata la risposta istituzionale alla rivolta delle banlieue? Il governo francese ha decretato il coprifuoco per porre fine alla violenza dilagante, mentre l’Italia si interroga sul proprio futuro. E’, dunque, la repressione la risposta delle istituzioni al problema dei giovani rivoltosi delle periferie francesi? E intanto, il ministro Sarkozy, che li chiama «canaglie», e le cui dimissioni erano state richieste a gran voce dal popolo delle banlieue , è ancora al suo posto. Certamente non sarà l’aumento della spesa sociale o il suo riorientamento, a migliorare le condizioni di vita degli abitanti di sobborghi sterminati e poco confortevoli, dove la droga, l’emarginazione e il disagio sociale la fanno da padrone. Le fiamme che bruciano Parigi e le periferie francesi da Nizza a Rouen, carbonizzano tutto quello che possono, e paradossalmente anche quello che non possono. In Italia per esempio, hanno bruciato completamente l’intero sistema di informazione televisiva, compresi alcuni giornali, perché di immagini se ne sono viste poche, di chiacchiere, invece, se ne sono sentite tante, e nessuna plausibile per una eventuale soluzione del problema. Abbiamo assistito in questi ultimi giorni, ad un’esplosione di descrizioni, interpretazioni, previsioni e spiegazioni tra le più disparate, ma con due elementi in comune. Il primo elemento è la tardività con la quale ci sono giunte, il secondo, l’incapacità dei media stessi di descrivere e spiegare il fenomeno. I “grandi numi” del giornalismo italiano, televisivo e non, tanto attenti al gossip e difendere la propria autoreferenzialità, sono arrivati quasi dieci giorni dopo a registrare uno degli avvenimenti più tragici avvenuti in Europa negli ultimi 50 anni. Da Vespa a Mentana, tutti hanno preteso di capire, senza neanche essere capaci di raccontare e documentare debitamente, quello che sta accadendo nel cuore dell’Europa. E’ chiaro che gli avvenimenti li hanno presi di sorpresa, ma è chiara anche la loro impreparazione nell’affrontare un problema del genere. Certo Parigi è lontana, ma noi non siamo forse in Europa? E questi eventi, a breve, non potrebbero riguardare anche noi? Politici, giornalisti, massmediologi e opinionisti presenzialisti di ogni genere ed orientamento, tutti intenti a pensare se lo spettacolo e le parole del “moralista” Adriano Celentano, sono state “rock” o “lente” mentre la Francia bruciava, non ci hanno certo fatto una bella figura. Che cosa è successo dunque in Francia e Perché? I giovani “immigrati”, sia pur di terza generazione – come ha osservato il sociologo Franco Ferrarotti – e che vivono in periferia, ai margini, hanno sentito crescere il rancore e la rabbia verso un “potere”, visto come iniquo e discriminante e aumentare la mancanza di fiducia nei confronti delle istituzioni, incapaci di dare risposte significative a problemi concreti quali, ad esempio, la “precarietà”. Una situazione non più sostenibile, tanto che l’ultimo tragico incidente, di tanti passati sotto silenzio – la morte di Zyed e Bouna – ha scatenato un putiferio. E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Quello delle banlieue francesi è soprattutto un problema eminentemente sociale e razziale. E’ un problema di qualità della vita e di possibilità di riuscita in un sistema autoescludente. Di aspettative deluse, di emarginazione e “disintegrazione” sociale. Non c’entrano nulla i sistemi di welfare e gli economisti, come alcuni autorevoli giornalisti hanno insinuato. Quello che la rivolta delle periferie francesi distrugge è lo sciocco orgoglio nazionalista ed europeo di considerare il proprio modello di economia e società come superiore a quello liberista, più capitalista nel senso classico del termine, di tipo anglosassone. Ma tale modello è poi oggi tanto differente da quello anglosassone? Oppure, dopo questi tragici ed indicativi eventi, possiamo concludere che il sistema americano è ormai talmente invasivo da averci completamente fagocitato? L’Europa si era forse illusa che la bassa crescita rappresentasse il costo della pace sociale? E che il suo fosse un modello che non accetta i grandi divari economici, privilegiando, automaticamente, l’inclusione sociale degli immigrati chiamati a sopperire alla mancanza di nascite e a quella di braccia per il lavoro? Oggi, la Francia che respinge la competizione internazionale e che difende una economia ricattata dalle corporazioni, ancor più di quella italiana, non è affatto inclusiva socialmente, anzi è l’opposto, è “auto-escludente” al pari di quella americana. Non è la riforma del welfare che serve agli esclusi, quelli che sono stati definiti i “senza nome”, i giovani delle periferie francesi; riforma che oggi fa ancora più paura a tutti quelli che ieri alimentavano il voto al razzista Le Pen. E’ questo il punto della situazione francese. E’ il concetto di esclusione che va considerato. Essere povero significa certamente sentirsi un escluso, e gli ampi divari economici spiegano questo sentimento, ma non è tutto. Al problema economico, certamente presente tra i ceti più bassi dei sobborghi francesi, dobbiamo aggiungere quello che tale status comporta, ovvero, la consapevolezza che non vi è un meccanismo per poter percorrere verso l’alto o verticalmente la scala sociale e quando si è ai piedi della scala e non vi è un modo per risalirla, e, dunque, si ha paura dell’esclusione, di rimanere “esclusi”. Ecco, allora, l’impotenza che diventa rabbia, odio e violenza. Le rivolte avvenute nei ghetti neri americani durante gli anni 60 nascevano dal sistema di esclusione razzista; i bianchi poveri, a volte più poveri dei neri, non si ribellavano perché, nel complesso, l’idea che l’impegno individuale avrebbe potuto affrancare dalla povertà aveva un fondamento, anche se non sempre e non in ogni luogo. Avvenimenti simili si sono verificati nuovamente a causa delle persecuzioni della polizia nel corso degli anni ’90 nei ghetti neri di Los Angeles. La stessa identica cosa si verifica oggi in Francia, tra i giovani immigrati di origine nordafricana. Le discriminazioni attive non sono mai utili anche là dove permettono di partecipare alla competizione in un sistema che ammette la competizione stessa, che ammette vincitori e vinti, ma non per casta, o peggio ancora, per “razza”. In un modello di economia corporativa, con un sistema di welfare studiato per proteggere una parte della società dalla concorrenza, non è solo la costruzione di case popolari e di ospedali, o l’adozione di un sistema pensionistico generoso, che può dare prospettive ai giovani, immigrati e non. Tutte queste cose non rappresentano un sistema di incentivi, quale potrebbe essere la prospettiva di un lavoro “sicuro” e non precario. Tutto ciò non alimenta la speranza in un futuro migliore, che possa garantire benessere, serenità e sicurezza ai giovani. I comportamenti di massa sono spesso irrazionali e difficilmente governabili, ma alla loro base c’è sempre un fondo di verità. La parte necessaria a far funzionare degli incentivi, è data, nel sistema capitalistico occidentale da un lato, dalla possibilità di successo economico e sociale e, dall’altro, dalla possibilità di fallimento, ma senza prescindere da un’integrazione sociale. Solo così possono funzionare gli interventi diretti a dare a tutti gli strumenti necessari a competere, a cominciare da un sistema di istruzione decente e la possibilità di trovare, finiti gli studi, un lavoro sicuro. Un capitalismo più controllato, moderato e centralizzato aiuterebbe senz’altro la mobilità sociale, orizzontale e verticale e quindi l’inclusione di tutti nella società. In conclusione, alla domanda se la prevenzione di possibili rivolte anche in Italia, risieda nella repressione e nell’emarginazione, la risposta è certamente no. E in mezzo a questa invasione di chiacchiere, tardive e poco convincenti cosa potrebbero aggiungere oggi gli economisti ai commenti banali dei politici, degli esperti di turno e degli stessi giornalisti? La risposta è proprio niente. Oggi, anche il ministro dell’interno Pisanu, sembra essersi svegliato, e dopo l’allarme lanciato da Romano Prodi, ritorna a parlare di integrazione e lotta al traffico illegale di clandestini. Franco Ferrarotti, invece, di «integrazione rispettando la diversità».
La protesta degli “esclusi” in Francia
R. C.
03/01/2025
L’incapacità del media televisivo di inquadrare il fenomeno.