“Aumenta la concezione negativa che già avevi di te ma col tempo perdi il filo dei ricordi, la trama della tua vita si va dissolvendo, concentrato come sei sul presente e sull’esigenza di annullarti. Vivi un senso costante di malessere, una sensazione di morte che alla lunga nemmeno lo sballo riesce più a coprire ma non sai nemmeno tu cos’è, ti riesce sempre più difficile collegarla agli episodi della tua esistenza, il legame tra il tuo sentire più intimo e la realtà esterna diventa sempre più flebile e vivi come se fossi un’altra persona, quella che vorresti essere quella che di volta in volta sei costretto a essere. Ma quello che credi di aver sepolto continua a lavorarti dentro, a lacerarti. Puoi annebbiare il cervello, puoi ingannare il cuore, puoi reprimere il tuo corpo fino a distruggerlo ma la parte più intima di te non muore. Si fa sempre più compressa, si assopisce ma la fiammella non si spegne. È li che devi andare a guardare, perché lì si nascondono i fantasmi della tua esistenza ma anche quel che resta della tua voglia di vivere e di lottare, è lì che devi avere il coraggio di lavorare affinché la fiammella si ravvivi e torni ad accendere la tua vita…”
Questi sono solo pochi frammenti del bellissimo libro “L’unica vita che avevo” dell’esordiente scrittore avellinese Benny Limone. Il libro, in forma romanzata, partendo dall’esperienza personale dell’autore come volontario presso centri di recupero per tossicodipendenti, racconta del duro mondo della droga, del come ci si possa ritrovare immersi senza nemmeno accorgersene, di come sia difficile acquisire la consapevolezza “di esserci dentro”, di come possa essere duro avere il coraggio e la forza di affrontare un percorso di recupero. Ma “L’unica vita che avevo” parla anche dell’amore puro, della forza dell’amicizia, di rapporti familiari complessi, tutto attraverso uno stile fresco, pulito, scorrevole. Un libro che si presta a una lettura tutta d’un fiato: presto, già dalle prime pagine, ci si affezionerà al suo protagonista, Riccardo, perennemente conteso tra il bene e il male, tra i suoi due mondi paralleli, tra la devozione alla droga e la strada difficile della redenzione.
Perché “L’unica vita che avevo”: da quali motivazioni personali nasce e soprattutto qual era il suo intento nel trattare certi contenuti? Arriva prima la storia o l’idea del libro?
Il titolo a prima vista sembrerebbe avere un’accezione negativa, potrebbe trasmettere un certo fatalismo che sconfina nella rassegnazione. L’intento invece è proprio quello di sottolineare che poiché abbiamo un’unica vita dobbiamo cercare di viverla al meglio e di lottare per salvarla anche nei momenti in cui ci sembra persa. E’ chiaro che in questo ci sono motivazioni legate alla mia storia, in particolare alla lunga esperienza di operatore volontario presso centri di recupero per tossicodipendenti. L’idea del libro nasce da lì.
Questo libro ha sancito il suo debuttato come scrittore: che effetto le fa essere definito tale e non più un sociologo o un impiegato regionale? Cosa si sente più di essere oggi?
Quella di scrittore è un’attività che, per quanto bella e gratificante, ho appena iniziato, per cui non mi sento assolutamente diverso da prima. Semplicemente la mia vita è un po’ più movimentata e meno noiosa se non altro perché si è arricchita di molte conoscenze ed esperienze che non pensavo di poter fare.
Lei ha appena partecipato alla Fiera internazionale di Torino, evento cui partecipano i più grandi nomi del panorama letterario italiano e straniero, quali emozioni, quali impressioni?
Un’esperienza altamente gratificante, il contatto con il mondo della cultura è sempre costruttivo, soprattutto quando incontri persone che fanno il mestiere di scrittore e di editore per passione e non solo per soldi. Sono quelli i momenti in cui ti ricredi rispetto alle delusioni avute quando mandavi in giro il tuo manoscritto e nessuno ti rispondeva oppure se lo faceva ti chiedeva dei soldi per pubblicare e capisci che è valsa la pena di perseverare e trovare qualcuno che credesse veramente in te.
Campagne di sensibilizzazione, educazione, valori e principi più o meno saldi alle spalle, affetti: tutto ciò non basta a tenere lontani i giovani dal mondo della droga. Lei esperto di recupero dei tossicodipendenti, cosa ritiene si possa fare ancora?
Intanto la prevenzione va fatta in modo serio: le pubblicità progresso in cui il personaggio famoso ci ricorda che drogarsi fa male sono completamente inutili, nessuno è così sprovveduto da credere che l’eroina faccia crescere sani e robusti per cui sarebbe meglio invece chiedersi come mai tanti ragazzi scelgano consapevolmente di autodistruggersi. E riguardo ai valori bisognerebbe iniziare a trasmettere quelli giusti. La società odierna è caratterizzata da una corsa ossessiva al successo ed è pervasa da una cultura diffusa in cui la chimica prevale sullo spirito e ogni problema dall’impotenza all’insonnia all’ obesità può essere risolto con la pasticca adatta. Tutto questo è molto funzionale alla droga.
Herman Hesse diceva che “L’arte della vita sta nell’imparare a soffrire e nell’imparare a sorridere”: probabilmente è proprio questo che oggi manca ai giovani. Manca quest’arte che non si apprende a scuola, che non impartiscono i genitori, forse perché nessuno sa come s’insegna. È forse, proprio questa incapacità di saper sorridere e soffrire che rende fragili, e, nel caso dei giovani, questa fragilità emotiva li rende deboli e potenzialmente a rischio rispetto alla droga. In questa società dell’ “incertezza”, dove pensa si possa insegnare o apprendere quest’arte per rendere i giovani immuni dal moderno “male di vivere”?
I giovani di oggi sono sottoposti ad un bombardamento mediatico, ad un esubero di messaggi che li mette a contatto praticamente con ogni aspetto della vita, positivo o negativo che sia, in una fase molto precoce della loro crescita, in un momento in cui non sempre hanno la maturità per elaborare le informazioni in modo giusto. Inoltre difficilmente si vedono negare qualcosa o devono fare fatica per ottenerla. Questo secondo me ha principalmente due conseguenze: da un lato danno tutto per scontato e perdono la gioia incomparabile della conquista e della conoscenza, dall’altro sviluppano personalità fragili che crollano al primo insuccesso. La felicità non si apprende ma è fatta di momenti che ognuno costruisce con il proprio impegno ed imparando ad andare avanti attraverso traguardi infiniti.
Lei ha presentato il libro presso gli istituti di scuola superiore. È nato tutto per caso o è stata una scelta specifica di target la sua? Ritiene che il suo libro possa risultare più interessante per un pubblico giovane?
Nel momento in cui ho iniziato a scriverlo ho pensato ad un pubblico giovane; l’età dei protagonisti è quella adolescenziale ed il problema della droga riguarda soprattutto loro, per cui una prevenzione seria non può che partire dalle scuole. Però poi mi sono reso conto che i riscontri positivi arrivavano pure da persone adulte e questa è stata una piacevole sorpresa. Forse dipende dal fatto che è scritto sotto forma di romanzo ed analizza la vita del protagonista in vari aspetti: non solo il problema della droga ma anche i viaggi, la vita in comitiva, gli innamoramenti e le feste.
Prevenzione, informazione: eppure lei ha parlato in un articolo di legalizzazione. Un pubblico adulto potrebbe cogliere l’apparente contraddittorietà del suo dire, ma avendo presentato il suo libro presso scuole dell’obbligo, come pensa potrebbero cogliere le sue dichiarazioni sull’ipocrisia dell’illegalità nell’uso di droghe leggere se i suoi giovani lettori le leggessero? Non potrebbero cogliere incoerenza e destabilizzarsi rispetto al suo “sostegno” alla legalizzazione?
Dipende da come si vuole leggere il messaggio. Io non credo che essere favorevoli alla legalizzazione significhi essere favorevoli alla droga. Nell’intervista di cui lei parla, io semplicemente sottolineavo che liberalizzare o meno l’uso di sostanze stupefacenti attiene ad un livello completamente diverso da quello che riguarda la persona ed il suo recupero ed è piuttosto una questione economica e moralistica. Nessuno ha mai smesso di drogarsi perché qualcuno lo vieta, per farlo c’è bisogno di motivazioni forti e soprattutto di una personalità strutturata, quindi tanto vale evitare la vergogna dei ghetti tipo la “167” di Secondigliano che servono solo ad umiliare ancora di più la dignità dell’uomo, nonché ad arricchire le mafie. Forse è vero che questo concetto può essere frainteso dai ragazzi in età scolare ma trasmesso nel modo giusto e spiegato bene li educa ad inquadrare il problema nella giusta ottica.
Pasqualina Scalea