Lo scorso 29 aprile a Milano si è svolta una partecipata assemblea, con delegazione da 32 atenei italiani, al termine della quale i ricercatori hanno confermato la volontà di non accettare più l’incarico di tenere le lezioni qualora il disegno di Legge Gelmini venisse approvato.
La questione più spinosa riguarda il fatto che alla figura del ricercatore universitario non viene riconosciuto lo status giuridico di docente, nonostante siano proprio i ricercatori a ricoprire attualmente il 40% della didattica ufficiale.
L’assemblea ha, pertanto, stabilito una settimana di mobilitazione dal 17 al 22 maggio con BLOCCO della DIDATTICA, OCCUPAZIONE SIMBOLICA degli atenei il 18 e MANIFESTAZIONE NAZIONALE davanti al Parlamento mercoledì 19. Ha ribadito “l’INDISPONIBILITÀ a tutte le forme di didattica frontale non obbligatoria richiamando formalmente i nuclei di valutazione a non considerare i ricercatori per la formulazione dell’offerta formativa 2010/2011”.
L’assemblea ha, infine, espresso una forte preoccupazione per la “privatizzazione della ricerca” e per la “deriva aziendalistica e dirigistica delle università”.
Nello specifico, il testo del disegno di Legge introduce una nuova figura di ricercatore a tempo determinato. Questo studioso può lavorare per un ateneo tre anni e vedere rinnovato il contratto per un massimo di altri tre. Dopodiché potrà accedere a una valutazione per ottenere l’abilitazione scientifica nazionale. Questa rappresenterà l’unico trampolino di lancio per diventare professore associato e poi ordinario. In pratica sarà l’unica via per arrivare fino in fondo alla carriera universitaria.
Viene spontaneo chiedere che fine faranno i ricercatori che oggi hanno già un contratto a tempo indeterminato negli atenei italiani? E che fine faranno i ricercatori che al termine dei due trienni di contratto a tempo determinato non otterranno l’abilitazione scientifica nazionale? Domande che non trovano ancora risposta e che hanno spinto i ricercatori a levare l’ennesima protesta contro il Ministero della Pubblica Istruzione. Rimane un’unica certezza: se i ricercatori decideranno davvero di non salire in cattedra molti corsi di laurea non potranno partire per mancanza di requisiti minimi di docenza.
Per tale motivo, la settimana di stop prevista in tutti gli atenei italiani riguarda anche noi studenti che rischiamo di non poter usufruire, per il prossimo anno accademico, della didattica. La protesta dei ricercatori di oggi è legata, quindi, al nostro domani.
Marianna Brescia