Da UniNord Milano ho avuto modo di intervistare uno specializzando della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università degli Studi di Milano, che attualmente sta svolgendo il suo percorso di specialità in un reparto di un noto Policlinico universitario milanese.
Non ha importanza chi egli sia, ma ciò che in questo momento mi interessa analizzare, è come affronta un percorso di questo genere, complesso e lungo, un ragazzo normale che cerca di conciliare i dettami di un’organizzazione estremamente influenzata dalla politica e dal sistema, con una vocazione che gli impone di mantenere sempre alta l’attenzione su ciò che fa giorno dopo giorno e su ciò che dovrà essere in futuro, non solo per se stesso, ma soprattutto per gli altri.
Le sue paure e le sue speranze potrebbero essere quelle di qualsiasi altra persona che si affaccia nel mondo del lavoro, ma credo, e spero siamo tutti concordi nel pensare questo, che chi decide di fare il medico, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, sceglie di dedicare la sua vita agli altri, alleviandone le sofferenze e offrendo la speranza di una vita migliore anche quando questa speranza è flebile e attaccata solo al destino.
Così tra una sigaretta e l’altra inizia la nostra intervista.
Si ha consapevolezza di quale sarà il percorso formativo quando si decide di iscriversi alla facoltà di medicina?
– R. Si, certo, però di fatto non sai verso cosa stai andando. L’ignoranza rispetto a ciò che ti attende, dettata anche dalla giovane età in cui normalmente si sceglie la facoltà, non ti porta a comprendere tutto. Molti colleghi oggi mi dicono che se avessero saputo prima cosa avesse significato questo percorso, probabilmente non lo avrebbero scelto. Anche i rapporti con i professori, data la concentrazione di “baroni” presenti in Università, non rendono facile il corso di studi.
Qual è lo stimolo che ti spinge ad andare avanti pur avendo la certezza che questo tipo di percorso è uno dei più complessi in assoluto tra le varie facoltà scientifiche?
– R. La volontà di raggiungere l’obiettivo e anche la consapevolezza di non essere capace di rispecchiarti in nessun altro lavoro. Il contatto umano è molto importante ed è stato sicuramente uno stimolo e forse una delle ragioni per cui io ho scelto di fare il medico. L’idea di te come medico la costruisci negli anni e può essere considerata un’affinità elettiva.
Quali sono le paure più frequenti di un giovane medico?
– R. Nuocere all’altro e a te stesso. La paura di infettarsi e ammalarsi a causa del lavoro (penso all’utilizzo dei raggi X molto frequente) è purtroppo un rischio reale e quotidiano.
Tra l’altro, non di rado, il paziente sceglie di non palesare la presenza di una malattia infettiva.
Pensando alla carriera, invece, il timore è quello di non avere ganci importanti che ti permettano di sfruttare le tue abilità nel mondo del lavoro. Il sistema sanitario così come il sistema televisivo, è dopato dalla politica. Per chi come me non è figlio di un noto chirurgo e non ha particolari agganci politici, il percorso di certo è più arduo.
Una volta entrati in specialità quali sono le aspettative?
– R. Ricevere una formazione tale da renderti autosufficiente come specialista. Mi auguro di riuscire ad acquisire tutte quelle skills che mi permettano di diventare un bravo chirurgo.
Quali di queste aspettative vengono soddisfatte?
– R. E’ fortuito. Dipende da come entri in specializzazione, da chi sei protetto. Il diritto alla formazione viene fatto pesare come se fosse un privilegio, per cui dipende molto da chi questo privilegio te lo concede.
Per me, che sono entrato in specialità con le mie forze, penso di poter dire di aver già soddisfatto l’aspettativa più grande, ossia entrare nella specialità che più mi interessava.
Quali aspettative invece non vengono soddisfatte?
– R. Dipende dal tipo di specialità. In ogni caso la crescita chirurgica per uno specializzando è lenta, per cui, spesso, questa è un’aspettativa che viene delusa. Ciò capita anche perché ci si trova spesso di fronte a specialisti con cui si lavora a stretto contatto tutti i giorni che devono prima acquisire per se stessi gli strumenti per operare. Lo spazio destinato agli specializzandi per cui è secondario. Dalla specialità non si esce purtroppo acquisendo tutte le abilità base che ti servono per essere un professionista.
Il percorso formativo in specialità, ti forma alla professione?
– R. Da un punto di vista teorico si. Dipende tanto da te stesso. In specialità è difficile essere bocciati, quindi sta tanto alla tua spinta, a quali obiettivi ti poni per il tuo miglioramento. Pertanto dal punto di vista culturale ce la puoi fare anche da solo, ma dal punto di vista chirurgico dipende da quanto posto ti riservano i tuoi superiori. Per fortuna ci sono specialisti che hanno a cuore la formazione del proprio specializzando.
C’è abbastanza spazio nei reparti per gli specializzandi?
– R. Dipende dai reparti. Milano è una piazza strana. Esistono una serie di problemi amministrativi che fanno si che ci siano problemi. Ad esempio se a Padova tutta l’attività clinica viene eseguita nello stesso centro vuol dire che, in quel centro, ci sarà poco spazio per tutti gli specializzandi, ma di contro essi avranno modo di apprendere tutte le sfaccettatura di quella specialità. A Milano, invece, esistono diverse cliniche universitarie, per cui gli specializzandi sono distribuiti su più centri e questo gli da maggior spazio. Ciò però comporta che all’interno dei vari centri non avrai tutte le sfaccettature di quella specialità come nella scuola di Padova, ma ti specializzerai solo in una tecnica piuttosto che in un’altra.
Quali sono le ambizioni di uno specializzando alla fine del percorso formativo oltre alla speranza di un lavoro stabile ovviamente?
– R. Sicuramente ti ritrovi a dover affrontare il mercato del lavoro e quindi speri di essere pronto a farlo. Le ambizioni sono diverse: c’è che vuole fare i soldi, chi ha velleità universitarie, chi vuole diventare un bravo chirurgo. La mia speranza è di trovare un buon posto, non tanto dal punto di vista economico, quanto dal punto di vista professionale. Mi piacerebbe avere un superiore che non mi consideri come forza lavoro da sfruttare ma che mi apprezzi come potenziale da sviluppare, aiutandomi a crescere e migliorare, soprattutto sotto l’aspetto chirurgico.
Cosa cambieresti nel percorso formativo in specialità, così come è concepito in Italia?
– R. Cercherei di eliminare tutte quelle situazioni di conflitto di interesse che di fatto fanno si che la specialità, all’atto pratico, si discosti molto da come è concepita e dalla ragione per cui nasce. In Italia lo specializzando è vissuto come mano d’opera a basso costo a cui far svolgere le mansioni più fastidiose dell’attività clinica. In Francia, ad esempio, la formazione si svolge nei reparti che vengono scelti dalle scuole di specializzazione a livello nazionale. Per cui, quando arrivi all’esame hai una prova seria da affrontare, per la quale è prevista anche la bocciatura e se ciò avviene, al reparto “incriminato” viene tolto l’accreditamento da parte della scuola di specializzazione. In Italia, invece, la bocciatura non viene contemplata. Esistono scuole che da decenni non formano o formano solo parzialmente, lasciando i neo specialisti nella drammatica situazione di assumere, al termine della loro formazione, degli incarichi per i quali non sono idonei. All’atto pratico ciò si tramuta nel dramma di non saper fare all’occorrenza, ma di essere costretto a farlo!
Quindi la speranza è che questo sistema di formazione venga sradicato perché così non funziona. L’Università italiana forma bene ma la specialità è troppo aleatoria. Questa è una delle ragioni per cui molti giovani studenti, prediligono la specialità all’estero o comunque decidono di continuare i gli studi laddove ti viene davvero concessa la possibilità di crescere. Se resti qui e continui il tuo percorso, pur tra mille ostacoli, non hai alternative se non quella di lavorare e studiare sodo facendoti aiutare da una buona dose di determinazione.
Laura Muro