Tuttavia, al di là delle pretese di coloro che vogliono porla sotto processo, è importante ricordare che la storia, talvolta, è un po’ ingiusta e ingiusti possono apparire coloro che “narrano” dimenticando e trascurando alcuni illustri personaggi che hanno invece lasciato un segno indelebile nei tempi. Questo è il caso di Cecco d’Ascoli, una figura la cui riflessione filosofica e letteraria è impregnata di mistero e leggenda, causa prevalente del forte interesse che oggi, a distanza di secoli, egli suscita in una larga schiera di studiosi.
Infatti spesso proprio l’alone di leggenda e di mistero solletica la curiosità dello storico e spinge a “riesumare” e ricercare codici e documenti ormai dimenticati.
Non è difficile collocare in questo panorama la figura di Cecco d’Ascoli, noto anche come Francesco Stabili. Sulla sua vita conosciamo ben poco e l’invidia e l’ammirazione che i contemporanei nutrivano nei suoi confronti ha creato una serie di leggende che hanno addirittura fatto di lui un negromante e che, seppure indirettamente, ne hanno arricchito la fama e il forte fascino che egli sprigiona. È certamente innegabile il fatto che troppo poco sia lo spazio dedicato all’ascolano nelle letterature italiane ma, al di là dei manuali, secondo alcuni studiosi oggi si assiste a una progressiva riscoperta di questa figura, che ha reso il verso un efficace strumento di educazione scientifica e morale. Cecco è uno degli uomini più notevoli dell’Europa dei tempi di Dante, con il quale si troverà in polemica2, e questa sua notorietà è sicuramente legata anche alla sua tragica vita, conclusasi con la celebre condanna al rogo avvenuta il 16 settembre 1327 a Firenze di fronte alla chiesa di Santa Croce, per mano del Tribunale dell’Inquisizione, con Frate Accursio.
Non è facile tracciare un profilo organico delle opere e del pensiero di Cecco d’Ascoli, destinato infatti a scontrarsi con le difficoltà legate all’assenza di testi in edizione critica e le cui fonti sono spesso in cerca di autore, quindi incerte.
Vita
Scrivere la vita dell’infelice poeta non è compito semplice in quanto ci si trova di fronte a svariate difficoltà, una scarsità di notizie e un clima di generale incertezza che permane attorno agli scritti nei quali egli viene citato. Nonostante ciò in molti ne hanno parlato ma la maggior parte si limita a nominarlo appena, riferendo della sua condanna al rogo e del concetto di mago e di negromante3 nel quale egli veniva spesso identificato da cronisti e storici, motivo questo della sua scarsa notorietà nei manuali di letteratura italiana. In tal modo possiamo comprendere il motivo per cui il Bariola4 di fronte a cotanta incertezza si limita a riassumere le congetture e le affermazioni altrui cercando di stabilirne quello che risulta essere più probabile.
La nascita di Francesco Stabili ( meglio noto con il nome Cecco d’Ascoli ) è fatta solitamente risalire alla seconda metà del XIII secolo, nell’anno 1269, anche se vi sono alcune polemiche in quanto alcuni studiosi, rifacendosi a documenti un po’ incerti affermano che egli sarebbe nato prima, tra il 1250 e il 1257. Egli nasce ad Ancarano e all’età di diciotto anni entra nel monastero di Santa Croce ad Templum, ad Ascoli Piceno, centro dell’esoterismo templare della Marca Meridionale.
Figlio di Simone Stabili, ricco e stimato cittadino ascolano, Cecco offre sin dall’adolescenza prova delle sue doti letterarie, in particolare nel campo della poesia. Egli studia medicina, filosofia, matematica e astrologia con grande passione, tanto che dal popolo egli era visto come un mago e un negromante, non perché esercitasse l’arte magica ma perché egli riusciva a meravigliare tutti in ogni occasione, al punto che nessuno pensava che potesse giungere a tanto senza l’ausilio di qualche potere “soprannaturale”. A questo proposito proprio l’Appiani, strenuo difensore dell’ascolano, narra che Cecco proponesse ai suoi concittadini, come prova del suo sapere, di condurre il Mare Adriatico fin sotto le mura d’Ascoli per agevolarne i traffici commerciali e renderla così emula delle repubbliche italiane marittime, allora assai fiorenti.
Tuttavia egli non rimase a lungo in patria e sempre l’Appiani ci comunica che Cecco fu chiamato ad Avignone da Papa Giovanni XII, il quale lo volle come medico presso la sua corte, un fatto che avrebbe scatenato l’ira e la gelosia degli altri “contendenti che “costrinsero” il povero Cecco a chiedere il congedo per poi trasferirsi a Firenze, dove fu accolto con grande onore e dove egli avrebbe stretto rapporti con Dante. La Firenze dell’epoca di Cecco è assai prestigiosa dal punto di vista culturale; essa rappresenta un ambiente molto importante per l’ascolano che si troverà ben presto coinvolto in altre dispute che scateneranno, secondo quanto affermato dalle cronache e dai documenti dell’epoca, nuove gelosie e nuovi contrasti, un intrecciarsi di varie vicende che lo condurranno progressivamente alla tragica sentenza finale.
Secondo le fonti persino il Sommo Poeta cominciò ben presto a “raffreddare” i rapporti con l’ascolano e con lui anche Guido Cavalcanti; importante è senza dubbio anche il rapporto di astio che lo legava all’insigne medico e filosofo Dino del Garbo, che non tollerava l’essere stato superato nella corsa verso la corte pontificia. Proprio il carattere di queste dispute lo portò ad evadere anche dalla terra fiorentina, suggestiva ed affascinante ma colma anch’essa di “male lingue”, pronte a scatenare una tempesta.
Proprio questi fatti daranno inizio al periodo più importante della vita di Cecco, non soltanto dal punto di vista intellettuale, il periodo bolognese.
Bologna era una città fortemente attratta dalla fama di Cecco, il quale vi trovò un caloroso alloggio intorno al 1316, giungendo ad una grande maturazione dal punto di vista intellettuale e, a servizio dell’Ateneo Bolognese, ottenendo diverse promozioni negli anni della sua permanenza5.
È molto importante, non per tediare il lettore, tracciare un quadro generale della Bologna immediatamente precedente all’ascolano, sede dello sviluppo nel campo degli studi astrologici, disciplina indispensabile per comprendere la grande opera di Cecco. Una breve ricostruzione di quel panorama storico-sociale può essere infatti di grande aiuto per comprendere “l’iter intellettuale” dell’ascolano e anche le complesse vicende legate alla sua condanna al rogo.
Dai primi anni del duecento Bologna rappresentava un centro di primo piano della cultura astronomica e astrologica europea, due discipline scientifiche delle quali non era possibile tracciarne i confini.
Per tutto il duecento e nei primi anni del trecento lo Studium conserva e incrementa il proprio prestigio in questo settore, potendo vantare una sequenza ininterrotta di figure scientifiche di alto livello, una costante e numerosa presenza studentesca e un mercato librario fiorente. La figura di maggiore livello dell’epoca, in questo campo, è Guido Bonati. Egli scrisse il famoso Tractatus de Astronomia e giocò un ruolo decisivo per gli spazi di prestigio che seppe aprire alla propria disciplina, affermandosi come consulente astrologico delle maggiori autorità politiche dell’epoca, soprattutto in campo ghibellino. Proprio questa tradizione scientifica e didattica trova continuità grazie alle figure di rilievo che si succedono lungo il corso del duecento e del trecento. Nella biblioteca dello studente di medicina e arti, impegnato nei corsi propedeutici di astrologia, si alternavano in quegli anni numerosi testi di diverso livello: dai più semplici Elementa Astronomiae di Alfragano all’ostico Almagesto di Tolomeo, testi che, come informano le fonti, non erano estranei al poeta ascolano. Riferimenti fondamentali per tutto il duecento e per i primi anni del trecento rimarranno la Theorica Planetaria di Gherardo da Sabbionetta e il Tractatus de sphera mundi dell’inglese Giovanni da Sacrobosco, così come il De principis astrologiae di Alcabizio.
Elemento costante attraverso i decenni e nella grande varietà dei livelli scientifici è la stretta connessione didattica e pratica fra dottrine astronomiche da un lato, quindi osservazione dei moti celesti e calcoli astronomici di una certa complessità, e attività
divinatorie dall’altro. Abbiamo quindi una serie di implicazioni che mettevano i cultori accademici di astrologia in una situazione complessa e delicata: offrivano loro eccellenti opportunità di successo mondano, grazie al ruolo di consulenza delle autorità che si affidavano ad essi prima di intraprendere spedizioni militari ad esempio, ma da un lato è importante sottolineare che tale scienza li metteva, almeno teoricamente contro la dottrina cattolica in materia di astrologia e libero arbitrio.
La cultura astrologica aveva quindi notevoli implicazioni politiche e la stessa cultura di governo, il ceto politico e la prassi amministrativa erano intrise di sensibilità astrologica e di dottrine a volte apertamente eterodosse. La legislazione statutaria bolognese offre un chiaro esempio, se consultiamo i documenti dell’epoca, di determinismo zodiacale. Si pensava che una certa congiunzione astrale potesse produrre individui dati a commettere determinate azioni. Il governo bolognese dell’epoca non temeva di manifestare apertamente, in un testo normativo di alto valore ideologico come gli Ordinamenti sacrati e sacratissimi, le proprie opinioni astrologiche. Un ambiente con una sensibilità così pervasiva non poteva che affascinare Cecco d’Ascoli, già vicino a tali tematiche.
Nel 1320 egli ottiene la prima lettura per gli studenti di Medicina con il commento di Ippocrate e della Logica di Aristotele. Nel 1322 abbiamo un grande passo in avanti infatti egli passa alla lettura di astrologia e commenta la Sfera del Sacrobosco, per gli studenti del primo anno; nel 1323-1324 ottiene la prima promozione passando al corso degli studenti seniore, con uno stipendio onorevole di 100 lire e con il commento del De principiis astrologaie di Alcabizio. Lo scatto di carriera lo ottiene nel 1325-1326 grazie al quale egli diventa ordinario di astrologia e commenta l’Almagesto di Tolomeo, opera fondamentale nella concezione astrologica medievale.
Dal punto di vista dottrinale sia il commento alla Sfera del Sacrobosco sia quello dell’Alcabizio non contengono opinioni particolarmente ardite in ambito astrologico o geomantico, ne sono esse paragonabili alle numerose tesi dell’epoca che negavano apertamente il libero arbitrio. Nonostante ciò Dino del Garbo si scagliò nuovamente contro il povero ascolano, spinto ancora da un sentimento di strenua gelosia e invidia. Egli infatti accusò Cecco all’inquisitore per la provincia di Lombardia frate Lamberto, affermando che avesse sostenuto, nei Commentari alla Sfera, l’esistenza di spiriti maligni, che si potevano invocare per mezzo d’incanti.
A questo proposito, è importante invece sottolineare come affiori continuamente nelle opere di Cecco un’evidente tentativo di armonizzare i risultati della ricerca scientifica con le superiori verità di fede, facendo salva ad esempio la potenza divina che può mutare in ogni momento l’ordine naturale e quindi il senso degli influssi astrali sul mondo sublunare. Quale furono allora le cause reali della sua tragica fine?
Ovviamente, viste le ingenti difficoltà relative alla possibilità di tracciare una certa ricostruzione del profilo biografico dell’autore, sarebbe impossibile analizzare con certezza matematica i vari fattori, ma vero è che appare molto più plausibile pensare a delle motivazioni politiche. Questo, vista la stretta connessione fra politica e astrologia, non ci allontanerebbe comunque dalla pratica astrologica. Gli studiosi infatti, oltre ad evidenziare la pratica dei pronostici per le autorità comunali, che pure Cecco elaborava con tanto successo, parlano di un suo possibile coinvolgimento nella logica degli schieramenti in atto nella Bologna dell’epoca.
In quella dinamica infatti Cecco prende apertamente posizione scegliendo per due volte la parte perdente, la classe popolare e in ambito internazionale egli manifesta le sue preferenze filo imperiali rispetto a quella pontificia. Si tratta di scelte che oggi potremo definire frutto di onestà intellettuale ma che all’epoca risultarono fatali a Cecco perché la prima lo indusse ad abbandonare quella Bologna che gli era sempre stata tanto ospitale, mentre la seconda scelta, quella antipontificia e ghibellina, fu causa non secondaria della sua rovina.
Assumendo queste posizioni Cecco offriva infatti un autorevole sostegno alle istituzioni popolari nel conflitto politico e sociale, andando quindi a favore di quelle fazioni disprezzate e sottomesse dalla classe dirigente bolognese.
Tuttavia egli riuscì a superare senza gravi conseguenze il primo processo che aveva come oggetto alcune “affermazioni eterodosse” contenute nel De Sphera, che verranno però riprese nella condanna definitiva del 1327.
Egli decide comunque di lasciare la città, consapevole di vivere in condizioni a lui sfavorevoli, in un ambiente che rendeva così difficile la sua permanenza.
Nel luglio del 1326 egli decide di accettare l’incarico di astrologo di Carlo Duca di Calabria, signore di Firenze. La storia ci invita a pensare che egli fosse in quella corte nelle stesse condizioni di quei principi italiani o stranieri in quei tempi di profonda superstizione, come auspicatore delle imprese guerresche attraverso lo studio delle congiunzioni astrali e forse anche in qualità di medico, anche se nessuno può negare che Cecco stesso avesse chiesto protezione al Duca per sottrarsi dall’Inquisizione.
Questo non era però sufficiente ad allontanarlo dal “pericolo” in quanto da circa un anno, a Firenze, l’inquisitore della Provincia Toscana era al corrente delle implicazioni riguardanti Cecco d’Ascoli e indagava sulle varie vicende relative alla vita dell’ascolano, che costituivano le preoccupazioni del Papa, il profetismo millenarista, il pauperismo e il ghibellinismo, nei quali egli si trovava astrologicamente coinvolto. Nonostante le intricate questioni Cecco non esitava nel fare pronostici in ambito politico di carattere filo imperiale e nuovamente intervennero Dino del Garbo con il fratello Tommaso, entrambi ostili nei confronti di Cecco, come già precisato, e,invidiosi persino della sua posizione di fronte al duca di Calabria, lo misero contro quest’ultimo richiamandosi al vescovo di Aversa, segretario di quest’ultimo, ponendo così tutta Firenze contro l’ascolano. Non passò infatti tanto tempo quando Cecco fu richiamato di fronte a frate Accursio, per rispondere a varie colpe: quella di credere di insegnare astrologia giudiziaria, di attribuire agli uomini certe qualità divine e di avere ingiuriato Dio dicendo che le condizioni di vita, di predicazione e di morte di Cristo sarebbero state determinate dagli astri e per avere inoltre abiurato di fronte a frate Lamberto, priore di Lombardia, ogni falsa credenza in nome della fede cattolica. Colpevole quindi di essere tornato
alle dottrine eretiche. Si tratta di accuse che i vari studiosi hanno smentito attraverso un lavoro di minuziosa ricerca e di analisi della sua opera, l’Acerba, esaminando le prove della “non-colpevolezza” di Cecco e chiarendo come il poeta non fosse in realtà così radicale come veniva descritto dal mondo cattolico.
Secondo le fonti Cecco non negò mai i capi d’accusa rivoltigli contro e possiamo interpretare questo aspetto come la volontà di affermare il suo pensiero, non ritenuto da egli stesso eretico. Tuttavia il suo grande coraggio e la sua onestà gli costarono assai cari: fu condannato al rogo dall’Inquisizione e morì arso vivo davanti alla chiesa di Santa Croce a Firenze il 16 settembre1327. Tra i sei giudici che emisero la sentenza figurava anche Francesco da Barberino, autore dei Documenta Amoris. L’inquisitore che lo condannò fu Frate Accursio. Udita la sentenza contro di lui egli non si sarebbe turbato per nulla e anzi avrebbe “beffato” i circostanti affidandosi alla promessa fattagli dal Diavolo di non poter morire se no tra Africa e Campo di Fiori. Fu condotto di fronte alla chiesa di Santa Croce e legato ad un palo con una catena, con ai piedi una gran quantità di legna, dove trovò la morte con animo intrepido e costante.
Tradizione vuole che la forte e multiforme personalità di Cecco sembrò resistere anche alle fiamme del rogo; qualcuno lo sentì urlare così: “L’ho detto, l’ho insegnato, lo credo!”6
L’Acerba. Un’analisi della realtà tra astrologia e occultismo.
L’Acerba di Cecco d’Ascoli è uno dei testi più esemplari della letteratura medievale italiana, nonostante il veto posto dalla chiesa alla riproduzione dell’opera e la condanna al rogo dell’autore e del suo poema. Un trattato vario nel quale si parla dei cieli e delle loro influenze, dell’anima, delle pietre, degli animali, dei vari tipi di fenomeni psicologici e naturali, della fortuna. Spesso polemico nei confronti di Dante Alighieri e incompiuto al quinto libro a causa della morte dell’autore, esso ha la fama di libro magico probabilmente a causa della triste fine dell’autore. Dopo l’edizione critica di Marco Albertazzi, è stata finalmente individuata l’esatta natura del titolo: Acerba Eetas nella tradizione principale dei manoscritti, volgarizzato col titolo Acerba vita, si riferisce alle questioni naturali, agli eventi che riguardano la vita mondana di questo mondo in relazione all’intero macrocosmo. L’Acerbavita è l’età dell’uomo che si compie sulla terra ed è acerbarispetto a quella vera e matura che si compie dopo la morte. In particolare Acerbaè un poema didattico composto da 4.865 versi in sestine. Ci sono oltre 100 esemplari, tra manoscritti e stampe fino al 1581, anno della Controriforma; da questo punto in poi l’Acerba sparisce fino al 1820, anno in cui Andreola ne cura un’edizione con caratteri di spiccata arbitrarietà, così come le successive edizioni di Rosario (1916), Crespi (1927), Censori-Vittori (1971), quest’ultima edizione diplomatica – ovvero trascrizione di un codice, di cui si riproducono anche le mutilazioni e gli errori più evidenti. L’Acerba è senz’altro una delle enciclopedie medievali in volgare più complete del Medioevo, in cui vengono riportate conoscenze di fisiognomica, alchimia, magia, fisica, astrologia etc…
La prima edizione critica dell’Acerba è quella di Marco Albertazzi che prende in considerazione circa una quarantina di manoscritti, frutto del lavoro dei testimoni attendibili dell’epoca.
La lingua del poema è, di per sé, una sovrapposizione di forme centro-italiane, un dialetto umbro-marchigiano cui si sovrappone bolognese e fiorentino, queste ultime due lingue sono state impiegate, presumibilmente, prima dall’autore che dai copisti della sua opera. Dopo la revisione filologica, la scrittura del maestro ascolano acquista una fluidità che sembra contraddire il luogo comune dell’illeggibilità del poema.
La cultura di cui Cecco parla coincide con il mondo creato, visibile e invisibile e l’opera rappresenta il più importante scritto antidantesco della letteratura europea:
Qui non si canta al modo delle rane ,
qui non si canta al modo del poeta
che finge immaginando cose vane;
ma qui risplende e luce ogni natura
che a chi l’intende fa la mente lieta.
Qui non si sogna della selva oscura.
Lasso le ciancie e torno su nel vero:
le favole mi fûr sempre nemiche.7
(Acerba, Lib. IV, cap. XII)
L’attenzione di oggi non dovrebbe essere solo storicistica e disciplinare cioè l’Acerba può esistere – e va pubblicata – come esempio di un modo espressivo e vivo di fronte agli occhi di tutti gli uomini.
Possiamo parlare di anticlassicità in i Cecco d’Ascoli, legata alla stratificazione linguistica (lingua più lingua, patina più patina) e scientifica (dottrina su dottrina): estraneità alla divulgazione accademica (al livello del presente) e, quando è necessario, autonomia della scrittura da altre scritture (al livello del passato).
Dopo i preliminari degli Studi Stabiliani, utilizzanti in questo breve lavoro come importante supporto per la comprensione delle parti analizzate, è importante esaminare l’edizione critica di Albertazzi, in quanto essa può offrire un grande aiuto nell’approccio filologico ed ermeneutico necessario per la comprensione dell’opera (il due livelli non possono essere separati, soprattutto se è in gioco un testo dottrinale e universale).
Il poema è diviso nei diversi codici che lo contengono e in alcuni non vi è distinzione di libri e capitoli, ma solo di rubriche. In altri possiamo rintracciare sei libri, ciascuno con un determinato numero di capitoli variabile a seconda del codice a cui ci si riferisce. Altre edizioni sono invece presentate in cinque libri in quanto unificano secondo e terzo libro, che nelle altre edizioni sono invece separati.
Dalla lettura dell’Acerba, ho ritenuto interessanti e, personalmente, molto suggestivi i passi dai quali è possibile estrapolare la concezione astrologica dell’universo di Cecco, che permettono di comprendere la relazione sussistente tra il piano della realtà e quello dell’occulto nella descrizione della natura offertaci dal poeta ascolano.
Le origini dell’astrologia si perdono nella notte dei tempi e probabilmente l’osservazione diretta e costante del firmamento deve avere affascinato e stimolato la
mente umana verso la scoperta di quanto era nei Cieli. Al di là dei contenuti dottrinali dell’Acerba, che possiamo senza dubbio catalogare come datati, è importante ricordare che proprio l’astrologia medievale, quella originaria, ci ha fatto conoscere alcune verità che prima erano celate e che tuttora stanno in coelis.
La materia trattata da Cecco è vastissima ed eterogenea e sembra riflettere quella scienza medievale reperibile anche in altri autori, ma è importante sottolineare che leggendo attentamente le righe della sua opera, attraverso il significato polivalente dei simboli diversi, è possibile ricavare una conoscenza autentica, valida anche nelle scienze odierne dell’uomo, il quale non può dimenticare di essere al tempo stesso soggetto e oggetto della medesima ricerca. Scopo di Cecco è dunque quello di inserire l’uomo nel cosmo. L’uomo vive sulla terra e dunque non può sottrarsi in alcun modo a questa armonia celeste, che è anzi base della sua stessa vita. Proprio questo è l’aspetto che non è stato compreso ( o non si è voluto comprendere ) della filosofia di Cecco. Durante il suo tortuoso percorso egli tentò di chiarire questo rapporto, di stabilire il valore della creatura umana di fronte a tutti gli elementi del Cosmo, un problema che anticipò le idee che più tardi sfociarono nell’Umanesimo. Egli aveva una profonda conoscenza scientifica dei corpi celesti e dei rapporti di influenza uomo-astri. Alla base della sua concezione astrologica egli pone Dio, che creò i cieli e il mondo per l’uomo:
Per gratia de l’umana creatura
Dio fè li cieli e lo terrestre mondo,
in lei creando divina figura
a somiglianza di sua forma degna,
ponendola nell’orizzonte fondo,
ove se danna, ovver si fa benigna.
( Acerba, 777 )
Queste righe ci aiutano quindi a comprendere come effettivamente Cecco non fosse così lontano dalla realtà cristiana, che in quell’epoca assai difficile non riuscì a capire la base delle sue complesse teorie. Egli afferma che Religione, Filosofia, Astrologia, avrebbero una comune origine, in funzione della Causa Prima.
L’Astrologia abbraccia tutto il Creato e le varie manifestazioni di esso, imponendo un sigillo, ciò che possiamo definire come una “signatura rerum”. La sua Astrologia può essere definita come una cosmologia all’interno della quale possiamo distinguere principalmente tre aspetti:
- un aspetto divino in cui il Supremo Motore dà vita e moto a tutte le creature
- un aspetto psichico di mediazione tra divinità e oggetto visibile
- un aspetto fisico, relativo al mondo delle cose contingenti
Tale cosmologia non è poi così lontana, nonostante le aspre critiche rivoltegli contro, dal modello tolemaico, ripreso poi dagli arabi e da altri dotti studiosi medievali, compreso lo stesso Dante.
Nel modello cosmologico presentato nell’Acerba, Cecco afferma che ogni Sfera Celeste è presieduta da sostanze incorporee (intelligenze angeliche) che muovono i cieli per ordine divino.
La Prima Intelligenza muove il Primo Mobile, causa del moto e della nostra stessa vita; questo passo mette chiaramente in evidenza anche il legame tra Cecco e Aristotele, testimoniato anche dagli antichi documenti bolognesi che affermano, come precisato prima, che egli ebbe modo di commentare la Logica agli studenti seniores bolognesi.
Sopra ogni cel substanze nude
Stanno benigne per la dolce nota
ove la pietà non occhi chiude,
e per la potenza dell’altrui virtude
conserva il giro di ciascuna rota
onde di vita ricevem salute
( Acerba, Lib. I, cap. I )
Le sostanze nude prive di rivestimento corporeo sono proprio le creature angeliche, che attingono dalla luce divina e partecipano al Suo potere di chiaroveggenza sulle menti umane, inferiori ma pur sempre in qualche modo divine in quanto da esso create. Si tratta di un’analisi piuttosto complessa e interessante può costituire un importante punto di partenza per operare dei confronti tra vari pensatori, analisi che ci condurrebbe fino a Plotino e a S. Agostino, tenendo ovviamente presenti le differenze sussistenti a livello speculativo.
Lo stesso Dante, nel Convivio, chiama queste intelligenze sostanze separate da materia Intelligenze, che la gente chiama più comunemente angeli.
Esse muovono i cieli senza alcuna fatica ma con un vero e proprio atto di volontà, legato alla contemplazione del Divino che gli permette di vedere tutte le cose manifeste, così come noi vediamo gli oggetti guardando nello specchio.
Move ciascuna angelica natura
De nove cieli in diosiosa forma
non fatigando lor sub stantia pura.
Ciascun move solo Dio contemplando
tucte le cose manifeste eterne
siccome noi nello specchio guardando
( Acerba, 12 )
Pertanto da questi versi si può chiaramente vedere la bellissima immagine descritta da Cecco, secondo il quale le creature angeliche vedono rispecchiate le cose di questo mondo attraverso la luce divina.
Nell’Acerba egli assegna quindi un ruolo di primaria importanza ai corpi celesti in quanto essi hanno degli effetti assai notevoli in tutta la natura; essi costituiscono la base della vita e di tutte le funzioni vitale degli esseri naturali. Senza i corpi celesti non esisterebbe nessuna forma di vita, ne naturale ne vegetale, infatti:
Intelligenze, stelle, moto e lume
ogni natura che la spera amanta
mantengono, e di ciò l’essere sume.
Se ciò non fosse, onni animal che vive,
e ciascuna vegetabile pianta
saria la lor virtù di morte prive.
( Acerba, Lib. I, cap. IV )
Ciò ci aiuta dunque a comprendere come il creato non sia mosso casualmente ma bensì dalla Volontà Divina, che tutto regge e tutto muove, grazie all’amore, manifesto della Sua gloria.
Sono li cieli organi divini
per la potentia de natura eterna,
che in lor splendendo, son di gloria plini.
In forma de disio inamorate
movendo, così il mondo si governa
per questi excelsi lumi immacolate
(Acerba, 715)
Proprio da questi versi si può chiaramente leggere tutta la concezione astrologica dell’Acerba e dunque il pensiero dello stesso Cecco, che pone al vertice dell’Universo Dio, simbolo d’Amore e di unione tra tutte le creature terrestri; il divino governa tutto e lo fa con l’ausilio delle creature angeliche che “collaborano” alla realizzazione del suo progetto spinte dal desiderio di essere irradiate dalla sua luce eterna. Abbiamo l’agire dell’invisibile sul visibile, sulla materia e ciò costituisce una testimonianza di come Cecco mantenga ben salda la distinzione sussistente tra il piano terreno e quello divino, al quale sin può arrivare soltanto attraverso la fede:
Per nostra sancta fede a Lui si sale,
e sanza fede l’opera si danna
(Acerba, Lib. IV, cap. XIII)
Nel piano terreno egli vuole indagare scientificamente ogni aspetto, mentre nel piano della manifestazione egli ricerca il perché delle cose, riconoscendo saldamente i limiti dell’intelletto umano che sta al di sotto del piano trascendentale.
Importante per condurre questa indagine è l’Astrologia che rappresenta, secondo quanto descritto nell’Acerba una via fondamentale per comprendere l’habitus etico degli uomini e delle creature terrene in generale, in quanto gli astri influenzano le genti dando vita a caratteri diversi, quindi il coraggio, la viltà, l’aggressività, l’avere fama e via dicendo. Come afferma anche nel commento alla Sfera del Sacrobosco, i cieli influenzano i nostri corpi e le nostre menti, ma sfugge ad essi l’anima in quanto essa tende alla perfezione senza allontanarsi dalla sua guida interiore.
Ma l’alma bella del factor simile
per suo voler a queste po’ far ombra
se non se inclina el suo voler gentile.
Quando la influentia ven da quelle
se soa virtù per queste non s scombra,
allora è donna sovra tucte stelle.
(Acerba, 105)
Per tale motivo Cecco definisce essa come donna, l’equivalente del latino domina, ovvero signora, sopra tutte le stelle; possiamo notare come anche in altri punti dell’Acerba viene utilizzato il termine donna per indicare la perfezione dell’anima, concezione per la quale l’uomo, indirizzerebbero istintivamente, seguendo questa spontanea tendenza al bene verso a cui lo i cieli, raggiungerebbe il giusto scopo della vita umana. Oltre a queste stelle, attraverso un meccanismo psichico inconscio, l’uomo è attratto anche dal beato regno, diretto quindi verso la luce.
E anche in questi passi, non certamente per eguagliare le due scuole di pensiero, possiamo citare nuovamente il Sommo Poeta, il quale nel XV canto dell’Inferno scrive:
Se tu segui tua stella, non puoi fallir al glorioso porto8
La concezione astrologica della realtà di Cecco è testimonianza di grande originalità ma occorre pur sempre collocarla all’interno dell’orizzonte del pensiero medievale, un panorama all’interno del quale il sistema astrologico stesso veniva spinto alle estreme conseguenze di un fatalismo che dava luogo a una serie di pratiche spesso deleterie, che ponevano in maniera evidente il problema del libero arbitrio dell’uomo, problema che non interessa soltanto l’Astrologia, ma riguarda anche la Filosofia e la Religione. E Cecco, nonostante le accuse, era sostenitore della libertà del volere umano, come appare anche dal commento alla Sfera nella quale, nonostante la sua fede nella scienza astrologica, troviamo pienamente affermato il libero arbitrio.
Non basterebbe infatti l’influenza delle stelle a determinare gli eventi futuri in quanto la natura umana sarebbe legata anche alla costituzione ereditaria.
Gli astri rivestono un’importanza basilare, come emerge dai versi scelti per la stesura di questo brevesaggio, ma è importante ricordare che l’uomo, nei suoi limiti, può modificarne l’influenza da essi esercitata, allargando la sua conoscenza sui cieli e sui loro moti.
Sarebbe quindi sbagliato attribuire la causa di ogni cosa alle stelle perché altrimenti non vi sarebbe più libero arbitrio e l’uomo non meriterebbe più ne premio ne castigo per il proprio agire. Possiamo così citare, con un pizzico d’ironia, a sostegno del pensiero di Cecco proprio il suo “acerrimo nemico intellettuale” Dante il quale scrive nel Purgatorio ( c. XVI ) :
Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio (…)9
L’eredità di Cecco
Tutta l’opera di Cecco può essere considerata come un invito verso il sapere, verso la conoscenza che tanto affascinava l’ascolano. Il sapere è infatti considerato da Cecco come avente valore più di ogni altra cosa e ciò emerge in tutta la sua opera nella quale egli afferma che
“Principio d’ogni ben è conoscenza (…) Non può morir chi al saver è dato”.
( Acerba, 660 )
Il sapere viene visto come base fondamentale dello sviluppo dell’individuo e della stessa vita dell’uomo, il quale sarebbe reso immortale proprio dalla conoscenza, che arricchisce l’anima dell’umanità.
Questa concezione è presente in tutta la riflessione stabiliana e non solo nell’Acerba; si può rintracciare infatti anche nei Commentari alla Sfera del Sacrobosco, nei quali egli scrive: « Supra mundi gloriam est post mortem vivere in menti bus humanorum»10.
La conoscenza appare molto importante soprattutto perché permette di insegnare ai giovani; essa istruisce e illumina le menti e proprio in ciò consiste il fine di ultimo di tutto il percorso intellettuale dell’ascolano; infatti anche nei suoi commenti all’Alcabizio, consistenti prevalentemente in una raccolta di lezioni da lui tenute presso le antiche Università di Bologna e di Firenze, è presente tale concezione.
La conoscenza rappresenta un ponte che può avvicinare l’uomo alla perfezione dell’essere e proprio per tale motivo egli ritiene importante l’interrogarsi; momento essenziale è quello del porre domande al maestro, come appare dal quarto libro della sua grande opera.
Io voglio qui che il quare trove il quia,
levando l’ale de l’acerba mente,
seguendo del filosofo la via.
( Acerba, 3326 )
Questa terzina è molto importante e ha un valore che possiamo definire programmatico, fondamentale per capire a fondo il pensiero dell’ascolano, che si preoccupa di andare a fondo al problema gnoseologico. È necessaria un’attenzione vigile sui propri pensieri, occorre molta prudenza e saper distinguere il bene dal male, consigli di cui ancora oggi si può far tesoro.
In tal modo Cecco esorta i posteri a riflettere prima di agire, facendo buon uso della ragione, organo fondamentale per la conoscenza, e a valutare le esperienze passate, ritenute importanti per poter vedere anche a quelle future. Un equilibrio indispensabile tra passato e futuro per rendere così l’uomo felice nel presente.
Questo coincide con il felice stato, cercare quelle cose che possono essere di nostro gradimento ed evitare quelle spiacevoli. Ogni esperienza viene affidata alla memoria che ne conserva il frutto e che, attraverso l’immaginazione ci da la visione delle cose desiderate, permettendoci in tal modo di dirigere il corso degli eventi nel modo migliore. Si tratta di un discorso che forse potrebbe apparire a noi “moderni” troppo scontato ma Cecco, nel parlare di memoria e di immaginazione in termini eminentemente pratici, anticipa alcune fondamenta della psicologia moderna.
L’amore per il sapere viene dal cielo, testimonianza del profondo legame tra l’ascolano e la scienza astrologica, precisamente da Mercurio, al quale viene attribuita l’origine della virtù e della nobiltà, tipiche dell’uomo che agisce e ragiona con la piena consapevolezza di avere dei limiti che lo circoscrivono. Infatti la potenza dell’intelletto umano ha dei confini precisi e definiti che non possono essere varcati e dai quali è bene tenersi lontani se non si è ben preparati. L’uomo può infatti esaminare tutto ciò che può raggiungere col ragionamento, che rientra nella sfera delle scienze, ma non ha la possibilità di trascendere, di giungere al Primo Mobile, il quale non può mai essere oggetto d’investigazione scientifica.
Cecco incita il discepolo a “muovere continuamente i remi dell’intelletto e ad esplorare attraverso la mente, rivolta continuamente verso la scienza, ma è allo stesso tempo consapevole dell’insufficienza umana di fronte a tutto ciò che concerne la Fede. Cecco, come altri grandi “intellettuali” del mondo medievale, distingue nettamente Fede e Ragione, affermando che la potenza della mente umana, madre della scienza, non può andare oltre la conoscenza scientifica e, come lo stesso Dante, comprende l’impossibilità di descrivere stati estatici di regioni celesti. In questi casi ci si deve “accontentare” di essere fedeli, in quanto il lume della ragione11 non fa luce sulle questioni metafisiche, che sono questioni di Fede.
Intelletto, Amore, Scienza e Fede sono il fulcro della dottrina di Cecco e il suo discorso è esposto nella sua opera con grande umiltà e modestia.
Sebbene Cecco d’Ascoli, come precisato nelle righe iniziali, non sia considerato tra i grandissimi personaggi del passato, la sua figura balza spesso al centro di nuovi interessi culturali anche dopo sei secoli e mezzo dalla sua scomparsa. I suoi scritti non sono stati studiati abbastanza per vari problemi, tra i quali l’incompletezza, che hanno scoraggiato l’opera di critici e commentatori che avrebbero voluto magari approfondirne il significato. Tuttavia è importante riconoscere che anche alcuni illustri studiosi del passato, tra i quali Thorndike e lo stesso Felice Bariola, hanno saputo spronare attraverso i loro lavori verso nuove feconde ricerche.
Nell’esaltazione dell’Amore e della Verità, Cecco denunciava in qualche modo le
iniquità di allora, di un mondo che ha condannato al supplizio numerose figure alle quali ancora oggi siamo grati, un mondo che però ha allo stesso tempo dato vita ad un pensiero, ad una speculazione teorico-filosofica della quale tutti siamo figli. Questo deve essere riconosciuto per evitare di cadere nei soliti luoghi comuni e per comprendere la stessa figura di Cecco d’Ascoli.
La sua voce è quella di un docente, del maestro che vuole aiutare e istruire il prossimo, coloro che lo comprendono e che si dimostrano disposti a seguirlo.
È indubbia l’ecletticità del suo pensiero, non sempre estremamente originale, ma si può sempre rintracciare una coerenza ad una concezione armonica della vita umana e di tutta la natura, dovuta all’intuizione di problemi umani ma anche allo studio razionale dei vizi e delle virtù.
Si tratta di una particolare filosofia della vita, ricca di un contenuto etico valido in ogni tempo, specialmente in quei momenti in cui l’umanità si trova coinvolta in crisi morali e sociali ( che non riguardano certamente solo l’epoca in cui vive l’ascolano!).
Possiamo dunque parlare di un fine didattico dell’Acerba, rintracciabile in svariati punti del poema, nel quale Cecco vuole stimolare i giovani verso il sapere, verso l’umiltà e verso la prudenza delle parole, creando così una situazione di equilibrio e di rispetto della vita. Questo non deve essere giudicato come “strano” in quanto lo scorrere del tempo e l’evoluzione del progresso umano non muta i problemi esistenziali dell’uomo. Anche se il progresso scientifico-tecnologico oggi è grandioso, esso può solo farceli dimenticare provvisoriamente, ma la mente umana vi farà poi ritorno in quanto sarebbe un rischio e una minaccia per il nostro futuro ignorare tutto ciò.
In tal senso Cecco d’Ascoli ha offerto tanto e tanto continua ad offrire alla nostra cultura, un importante punto di riferimento in una realtà dove spesso la scienza sembra rinnegare la validità dei problemi gnoseologici esistenziali per riversare l’attenzione sui problemi tecnologici.
L’ascolano, come altri grandi studiosi dell’epoca da noi esaminata, costituisce un importante punto di riferimento per quelli studiosi che, in tutto il mondo, si dedicano con grande sacrificio e dedizione alla ricerca pura, per esplorare certe facoltà umane che di tanto in tanto affiorano in apparente contraddizione con le leggi della Logica e della Fisica.
Le opere di Cecco meritano dunque di essere “riesumate” e studiate non soltanto per motivi letterari; è importante scavare a fondo nei vari aspetti che le caratterizzano, come testimonia lo stesso Albertazzi attraverso il suo lavoro di critica, perché proprio nell’epoca in cui viviamo,forse paradossalmente, gli studiosi del campo delle scienze umane possono rinvenire, accanto alle “superstizioni medievali” (magari non tutte da scartare!), antiche tracce di qualche verità scientifica ancora da scoprire.
1 Cicerone, De Oratore 2.36: « Historia est testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis.»
2 Si tratta di una tematica fortemente affascinante e molto importante per comprendere la vita del “poeta ascolano”, anche se è doveroso precisare che attorno vi circolano attorno varie leggende che, dal punto di vista della curiosità intellettuale, sono molto interessanti ma che potrebbero però ostacolare colui che si accinge a ricostruire il profilo biografico dell’autore.
F. Bariola, Cecco d’Ascoli e l’Acerba, p. 73, in Studi Stabiliani. Raccolta di interventi editi e inediti su Cecco d’Ascoli, a cura di M. Albertazzi, La finestra, Trento 2002.
4 Felice Bariola pubblica nel 1879, nella Rivista Europea, un articolo apparso in vari fascicoli intitolato Cecco d’Ascoli e l’Acerba considerato ancora oggi, a distanza di oltre un secolo fondamentale punto di riferimento per coloro che intendono intraprendere una ricerca sul poeta ascolano.
5 Gli antichi documenti, consultabili presso gli archivi dell’ateneo bolognese, ci informano il salario di Cecco d’Ascoli si aggirava intorno alle cento lire, cifra onorevole per quell’epoca.
6 Nestler V., Partini A. M., Cecco d’Ascoli. Un poeta occultista medievale, Edizioni Mediterranee, Roma 1979, p.143.
7 Da questo punto della relazione prenderò in esame varie parti dell’Acerba, utilizzando l’edizione sopra citata, presente anche nella bibliografia del seguente lavoro, di M. Albertazzi e indicherò nei versi analizzati il libro e il capitolo corrispondente.
8 Alighieri D., La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 1979, Inferno c. XV.
9 Alighieri D., op. cit., Purgatorio c. XVI
10 G. Sacrobosco, De Sphera Mundi, commentari a cura di Cecco d’Ascoli.
11 Utilizzo questo anacronismo, consapevolmente, per enfatizzare l’importanza del discorso di Cecco, che nell’Acerba si sofferma ripetutamente sui limiti della ragione umana per tracciare le differenze sussistenti tra fatti di scienza e fatti di Fede.