Ecco perché abbiamo un Pasolini ucciso dal progresso
«Nessun Paese capitalistico è cresciuto senza la condanna e la critica (individualistica, populistica, conservatrice o utopica) dei suoi migliori intellettuali» – Alfonso Berardinelli.
Il progresso è uno dei fini e dei motori della storia. Il dinamismo e la perpetuità della natura ne sono un esempio lampante. La ciclicità dei fenomeni naturali, infatti, è una cartina al tornasole del ruolo nevralgico ricoperto dal progresso nell’escatologia concettuale di uno sviluppo temporale, lineare e costante. Criticare ciecamente il progresso dell’umanità, ritenendolo illogico o addirittura inutile, significa dimenticare che la natura, il mondo e la realtà delle cose sono totalmente condizionati dalla ciclicità. Progredire significa avanzare di grado, passare da uno stadio all’altro attraverso trasformazioni necessarie.
Fin dall’antichità, l’uomo non ha fatto altro che progredire inventando nuove tecniche di sopravvivenza. Il leitmotiv dell’esistenza umana è, senza ombra di dubbio, contornato, edulcorato e rinvigorito dalla volontà di sviluppare nuove e migliori condizioni di vivibilità terrestri. Non a caso, infatti, il progresso è espressione delle trasformazioni e dei conflitti della realtà. Fin dai tempi più remoti, l’umanità ha dimostrato di avere innate attitudini creative ed evolutive. La storia, infatti, ci ha reso edotti dell’esistenza di un fil rouge che lega l’uomo al progresso e che, al contempo, santifica e fortifica l’immagine di un mondo illuminato e governato da un moto perpetuo ascensionale.
Tuttavia, non c’è mai stata un’epoca in cui gli intellettuali del momento non abbiano criticato ripetutamente la modernità e lo sviluppo. Gli intellettuali d’occidente hanno sempre giudicato in modo sprezzante il capitalismo e la sua verve innovativa. In particolare, il “culturame italiota” d’impronta tardo-sessantottina non ha mai accolto di buon grado l’avvento della modernità.
Forse, in certi salotti culturali, a cavallo tra ‘68 e ‘75, si respirava un’aria troppo misoneista. La caccia alle stregonerie scientifiche di fine secolo, per molti segnò l’inizio di una nuova era catartica. Molti (forse troppi) intellettuali si scagliarono contro la tecnologia, demonizzandone e biasimandone ogni aspetto, anche il più limpido e cristallino; in altre parole la sua lampante funzionalità. In troppi restarono avvinghiati alla tradizione. In pochi riuscirono a essere lungimiranti. Qualcuno, però, ebbe modo di percepire nell’aria quello strano profumo di svolta che di lì a poco avrebbe condotto la nazione, verso gli allori di un insperato e stupefacente sviluppo socio-economico. Qualcun altro, invece, utilizzò il progresso come strumento atto ad inasprire il proprio sdegno verso alcune correnti politiche, ree di essere inette e filo consumistiche; ergo, troppo “tolleranti”.
Al di là delle dicotomie mai sopite tra i guelfi e ghibellini dell’epoca moderna, c’è un dato, tutt’altro che allarmante, su cui ritengo opportuno soffermarmi. L’Italia di oggi, non è altro che una conseguenza logicamente prevedibile delle idee pre-unitarie e post-belliche che, a torto o a ragione, l’hanno dapprima “rifondata”, poi ricostituita.
La nostra Italia, che si voglia o no, è stata rinvigorita e infervorata dalle idee europeiste di Mazzini e, in seguito, risollevata dalle ceneri e ricostruita dalle fondamenta grazie al supporto degli Usa. Sicché, la nostra Italietta, ne ha vissute e come di trasformazioni storico-sociali. Trasformazioni che, tuttavia, l’hanno resa di gran lunga più ospitale rispetto al passato.
In precedenza ho chiarito che, per certi versi, il progresso, giacché protagonista indiscusso della ciclicità del mondo e della natura, coincide con le trasformazioni della realtà. L’Italia, dicevo, ha subito (del resto come la gran parte delle nazioni occidentali) diverse metamorfosi antropologiche, economiche e culturali.
Nell’Ottocento la nostra nazione era avvolta da una nefasta nube di arretratezza che le impediva di stare al passo col resto d’Europa. Un’economia prevalentemente rurale e una società contornata dal dissidio storico tra baroni latifondisti e contadini, contribuivano a rendere non del tutto illogiche le pretese rivoluzionarie avanzate da alcune frange d’insorti.
Tuttavia, nemmeno i moti del 1848 servirono granché. La prima vera trasformazione italiana trasse origine da due eventi sintomatici: la seconda rivoluzione industriale, che a differenza della prima, scalfì anche il Bel Paese; e l’unificazione garibaldina.
Dopo questi eventi, l’Italia rurale si trasformò in pre-industriale, rinnovando seppur parzialmente la propria struttura sociale. Fu solo in seguito ai due conflitti mondiali e alla caduta del fascismo, però, che l’Italia poté assurgere al rango di Paese in via di sviluppo. Infatti, la spirale evolutiva post-bellica rese possibile il passaggio dal mondo paleo-industriale al mondo pre-industriale.
Invece, dal 1950 in poi, il boom economico e l’avvento dei mass media, contribuirono a innescare un’altra trasposizione evolutiva, forse l’ultima e per certi versi la più attuale: quella del passaggio dal mondo paleoindustriale al mondo consumistico. Ovviamente, ogni salto generazionale è stato accompagnato da studi scientifici, scoperte, invenzioni tecnologiche che hanno contribuito a rendere la mutazione antropologica meno dolorosa e più piacevole.
Dunque, il progresso inteso come avanzamento socio-culturale del mondo e dell’Italia, seppur irruento e talvolta burrascoso, appare tremendamente utile e funzionale alla storia ed ai suoi corsi e ricorsi naturali. Tuttavia, rimpiangere, con enfasi nostalgica e retrograda, il retaggio filo rurale, contadino e bucolico servì solo a obnubilare l’efficienza di ciò che a tutti appariva oramai necessario: la tecnologia. Quasi tutti gli intellettuali dell’epoca postbellica e post anni 50, infatti, si dichiararono nostalgici del passato. Lodarono, apertamente, l’italietta rurale e mai banale. I suoi costumi integri e tradizionalistici, le sue capanne di cartapesta e persino la sua miseria e il suo degrado.
Nel diciottesimo secolo, epoca della prima rivoluzione industriale, il progresso divenne un concetto universale della filosofia della storia. A quei tempi, gli intellettuali e i luminari della scienza erano convinti che il progresso fosse il fine primo ed ultimo della vita. Le loro convinzioni erano fomentate dalla nascente logica materialistica che, di lì a poco, avrebbe condizionato ogni barlume esistenziale e, per certi versi, irretito l’ideologia spiritualistica e religiosa propria delle principali religioni monoteiste. In realtà, con l’avvento delle prime forme di tecnologia, le società occidentali entrarono in un nuovo stadio evolutivo contornato da un unitario imperativo catartico: il miglioramento della realtà.
Fu così che le innovazioni scientifiche e tecnologiche effettuate in quegli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo assursero a rango di creazioni umane, di opere perfette, quindi di emblema della nuova ideologia razionalistica. Tuttavia, l’esaltazione del progresso inteso come motore unico della storia, come trasformazione necessaria dell’uomo e della società, non generò consensi unanimi, bensì dicotomie concettuali.
Alcune correnti di pensiero, infatti, posero l’accento sui difetti e sulle deleterie conseguenze del progresso. Uno dei principali accusatori di tale logica evolutiva fu Rousseau, il quale in più circostanze ebbe modo di descrivere quali fossero i limiti e le tautologie di questa esasperazione tecnico-scientifica accecante, fuorviante e incapace di ipostatizzare quel progresso morale cui la società e l’uomo, invece, devono aspirare.
Malgrado ciò, i fautori del credo modernista e filo-progressista continuarono imperterriti ad inventare, creare e produrre nuove e salvifiche realtà in cui l’uomo potesse identificarsi. Nel frattempo, crebbero a dismisura gli adepti della confraternita del progresso che, da semplici fautori o simpatizzanti protesero a divenire veri e propri fedeli di un credo ormai supportato e reso sublime da invenzioni sempre più importanti. Si pensi all’elettricità ed alla macchina a vapore, ma anche al telegrafo ed alle prime automobili. A cavallo tra il XIX e il XX sec, i miracoli della scienza crebbero a dismisura.
Tuttavia, più il progresso avanzava di grado e più il timore e la prudenza delle frange filo-tradizionaliste aumentavano. Non è un caso, infatti, che in quegli anni presero piede le teorie filosofiche del pessimismo e dell’irrazionalismo, entrambe fautrici d’imperativi categorici totalmente contrari al progresso e al positivismo. Al di là delle critiche, però, il progresso continuò a rivestire un ruolo da protagonista.
Da motore immobile delle trasformazioni sociali, divenne ben presto colonna portante della nuova visione modernistica della realtà: la secolarizzazione. Bisogna dire che nemmeno le due guerre mondiali lo affievolirono in maniera irreversibile. Anzi, probabilmente, i conflitti bellici contribuirono a dar man forte alla causa della trasformazione generazionale più di quanto si potesse immaginare.
Si pensi al boom economico postbellico e alla nascita del consumismo di massa, del benessere diffuso, della democrazia e della tecnocrazia. Si pensi all’invenzione della penicillina e degli altri farmaci che hanno contribuito al benessere psicofisico dell’umanità, garantendone processi esistenziali notevolmente migliori rispetto a quelli offerti dalle epoche precedenti. Insomma, il novecento ebbe il merito di far da cornice all’osmosi tra progresso e sopravvivenza umana, trasformando quest’ultima in “diritto al benessere”.
Tuttavia, i fautori della critica del progresso non smisero di inveire contro l’innovazione tecnico-scientifica né tanto meno di avversare l’idealtipo filosofico della modernizzazione. Infatti, dopo i lauti consensi generati dal boom degli anni cinquanta, in Italia e negli altri Paesi occidentali e industrializzati, crebbero a dismisura nuovi e prolifici epigoni della lotta allo sviluppo.
Pasolini ucciso dal progresso: ecco perché e cosa si intende con questa affermazione
Il principale accusatore del nuovo ordine del progresso occidentale fu, senza ombra di dubbio, lo scrittore e regista Pierpaolo Pasolini.
Pasolini era un catto-comunista.
Nel saggio Lettere Luterane (pag 28 paragrafo quarto), rivolgendosi a Gennariello, suo interlocutore immaginario, scrive : «Io non credo in questa storia e in questo progresso. Non è vero che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l’individuo sia le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata. La sua accettazione realistica è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti. La regressione e il peggioramento non vanno accettati. Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile».
La carica emotiva delle parole di Pasolini rappresenta uno dei simboli della lotta che gli intellettuali dell’epoca moderna hanno intrapreso e deciso di fomentare nel nome di una sublime elevazione spirituale e culturale dell’uomo. Questa sorta di romanticismo post-vinetiano, anti-capitalista e filo-spiritualista in realtà, a torto o a ragione, diventa un vero e proprio cavallo di battaglia per il culturame post-sessantottino.
Tant’è che nel giro di qualche decennio riesce ad annichilire definitivamente l’idealtipo di progresso come fine ultimo della storia e, contemporaneamente, a sopire gli alterchi e le polemiche fomentate contro il mondo della scienza. Dunque, dal 1970 in poi, il progresso perde gran parte della sua sublime lucentezza, assumendo le ridotte sembianze di “mezzo portatore di benessere.”
La critica del progresso di Pasolini, così, assurge a rango di faro destinato ad illuminare la dritta via che una società corretta deve percorrere per purificarsi dalle inezie e dalle illusioni della materia. Tuttavia, la vera critica del progresso non era ancora nata. La sua, non era altro che un’idea embrionale ed estrema. L’autore delle Ceneri di Gramsci, infatti, fomenta critiche aprioristiche e, per certi versi, misoneistiche che scalfiscono solo in maniera puramente speculare il reale problema del progresso.
Il principale problema del progresso, infatti, non è il progresso in sé, ma la maniera attraverso la quale esso viene ad esistenza. I problemi del mondo, non possono risolversi in una cieca opposizione al progresso, ma in una opposizione al progresso cieco. Mi trovo perfettamente d’accordo con Pasolini nel criticare il consumismo inteso come culto del superfluo, dell’abbondanza e delle idiozie culturali. Ma non posso condividere la sua idea di progresso inteso quale regressione e degradazione della storia umana.
A dire il vero, questa idea mi sembra piuttosto contraddittoria e tautologica. Non è vero che il mondo stia cambiando in peggio, che le innovazioni tecnologiche e i successi scientifici siano a priori idonei a innescare meccanismi inconsci di regressione. Non era vero allora, cioè nel 1975 e non è vero oggi. Il vero scandalo sarebbe rappresentato dal lasciare tutto immutato nel tempo.
Se ad esempio le fabbriche smettessero di produrre, gli operai di lavorare e le macchine di funzionare, allora si che dovremmo preoccuparci. Perché in un simile scenario apocalittico, gli uomini perderebbero ogni speranza e si abbandonerebbero a pogrom d’impronta filo anarchica. E tale ipotetico atteggiamento non sarebbe né poetico, né letterario, bensì inutilmente sanguinoso.
Ad ogni modo, ritengo sia opportuno non far di tutta l’erba, un fascio. La mia pseudo critica non è altro che un personalissimo tentativo di avvicinamento alla geniale opera di Pasolini. Pasolini per me resta uno dei geni della letteratura e del pensiero europeo. Lungi da me, quindi, voler biasimare la libertà culturale e la saggezza profetica e morale dell’autore di una vita violenta. Con quest’articolo, ahimè, desidero soltanto tentare di comprendere al meglio quale sia il ruolo che il progresso ha assunto dal 1800 ad oggi. Tuttavia, ritengo sia giusto lottare contro il progresso sregolato ed insensato; cioè criticare il metodo e non l’essenza del progresso.
Non è un caso, infatti, che la vera critica del progresso sia sorta in seguito alle catastrofi nucleari degli anni ottanta. Non è un caso che la scienza, anche dopo tali scempi, abbia continuato imperterrita a intraprendere nuovi e sublimi percorsi di conoscenza. Non è un caso, inoltre, che eventi come quelli di Cernobyl abbiano contribuito ad irretire non l’idea del progresso tout court, bensì la frenesia, l’audacia, la sregolatezza e gli eccessi dei tecnocrati moderni. Del resto, oggigiorno criticare il progresso vuol dire metterne in risalto un aspetto necessario ed irreversibile : la sostenibilità.
Pasolini: Scienziato e Luterano
«C’è stata una certa illusione alcuni anni fa-una delle tante stupide illusioni di alcuni anni fa- che la razza umana appunto attraverso la scienza medica e il miglior nutrimento migliorasse. Che i ragazzi fossero più forti, più alti ecc. breve illusione. La nuova generazione è infinitamente più debole, brutta, triste, pallida, malata di tutte le precedenti generazioni che si ricordino. Le cause di ciò sono molte: una di queste cause è la presenza, tra i giovani, di coloro che avrebbero dovuto morire. Questi sono molti, in certi casi (Sud e classi povere) la percentuale è altissima. Tutti costoro o sono depressi o sono aggressivi, ma sempre in modo o penoso o sgradevole. Niente può cancellare l’ombra che una anormalità sconosciuta getta sulla loro vita» – Pasolini, Lettere Luterane.
A pagina 57 delle Lettere Luterane, Pasolini continua ad attaccare il progresso. In un breve articolo, intitolato Vivono, ma dovrebbero essere morti, lo scrittore e regista italiano, obnubilato da un odio pressappoco nefasto, rivolge le sue più languide accuse, stavolta, alla medicina, rea di aver salvato i destinati ad esser morti : “essi mi appaiono invece come una categoria nuova, impensatamente comparsa in Italia da una dozzina d’anni”. Questi destinati ad essere morti, dunque, per Pasolini sarebbero comparsi per la prima volta nel lontano 1950, cioè in pieno boom economico.
Senza l’intervento della scienza e della tecnologia sarebbero morti nella prima infanzia, in quel periodo che si chiama di mortalità infantile. Grazie all’ausilio della medicina, invece, questi poveri bambini sono stati salvati dall’atroce destino che li attendeva. Sono sopravvissuti alla morte, seppur in maniera artificiale. Meglio di niente penserà il lettore. E invece no.
Per Pasolini biasimare il progresso vuol dire far piazza pulita. Infatti, secondo lui, a causa della loro natura artificiale, questi non morti rappresentano una sorta di errore storico : «i figli che nascono oggi non sono più aprioristicamente benedetti. Il giudizio tra benedizione e maledizione è sospeso. Sono però decisamente maledetti coloro che nascono in più».
Pasolini, insomma, pur di dar torto al progresso ed in questo caso alla medicina, tira in ballo la conservazione della specie darwiniana ed il controllo delle nascite, lasciando intuire al lettore quale sia, secondo lui, la strada più adatta per la salvezza dell’umanità : «bisogna evitare, perché l’umanità si salvi, l’eccessivo prevalere delle nascite sulle morti». Con questo sconcertante pensiero, lo scrittore emiliano, assurgendo a rango di “scienziato”, arriva a sostenere che tutti i bambini salvati dalla medicina e sopravvissuti a una morte certa siano infelici, perché non amati, e a causa di ciò tendano a diventare depressi o aggressivi; cioè delle mine vaganti abbandonate nel bel mezzo della giungla societaria.
Ora, mi chiedo e vi chiedo, cosa è più assurdo: criticare il progresso e la medicina? Oppure l’idea secondo cui chi nasce grazie alla scienza sia un errore? Io ritengo assolutamente più assurda la critica che Pasolini rivolge alla scienza medica. Con tutta onestà, credo sia un po’ troppo contraddittorio criticare il progresso (perché immorale), e dichiararsi al contempo favorevole al controllo delle nascite. In fin dei conti, chi siamo noi per decidere chi debba o meno venire al mondo?
Alla luce di quanto riportato, intendo concludere questo “excursus” sul progresso manifestando tutto il mio dissenso nei confronti del Pasolini Scienziato di pagina 57. Probabilmente, questo scritto datato 22 maggio 1975 decretò la sua morte “etica e morale”.
Sebbene io stesso non sia uno scienziato, ma un semplice osservatore della realtà, devo ammettere però che la più atroce delle blasfemie che il progresso possa ipostatizzare sia l’infervoramento degli animi di coloro che, servendosi della scienza, credono di poter giudicare il valore ed il senso di una vita umana. Nessuno ha il diritto di giudicare il senso dell’altrui esistenza. Ogni essere umano viene al mondo per una ragione ben precisa. Del resto, se Pasolini avesse ragione, allora tutte le persone nate con tecniche mediche artificiali dovrebbero essere inserite nella categoria-ghetto dei destinati a esser morti, sarebbero condannate a vivere d’infelicità nella fossa dei serpenti e a chiedersi se la loro venuta al mondo sia stata veramente desiderata o no.
Tuttavia, non potendo dimostrare se Pasolini abbia torto o no, non mi resta che spiegare la ragione per la quale, dopo aver letto attentamente le sue opere, ho capito di non essere un intellettuale. Non lo sono perché, accetto il sistema senza identificarmi con esso. Non lo sono perché credo nel progresso e nella necessità delle sue trasformazioni.
Non lo sarò perché il futuro sarà sempre meno accettabile e le sue trasformazioni sempre più stravolgenti. Non lo sono perché a differenza di Pasolini io non m’identifico nella poesia o nella letteratura senza accettare la realtà delle cose o biasimando la vita dei non morti, ma accetto razionalmente la realtà senza identificazione alcuna. Ed infine non sono un intellettuale perché credo che il mondo vada cambiato.
Per tali ragioni, io non sono e non sarò mai un intellettuale.