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Pasolini ucciso dal progresso: ecco perché

Redazione Controcampus 7 Ottobre 2012
R. C.
19/11/2024

Ecco perché abbiamo un Pasolini ucciso dal progresso «Nessun Paese capitalistico è cresciuto senza la condanna e la critica (individualistica, populistica, conservatrice o utopica) dei suoi migliori intellettuali» - Alfonso Berardinelli.

Ecco perché abbiamo un Pasolini ucciso dal progresso

«Nessun Paese capitalistico è cresciuto senza la condanna e la critica (individualistica, populistica, conservatrice o utopica) dei suoi migliori intellettuali» – Alfonso Berardinelli.

Il progresso è uno dei fini e dei motori della storia. Il dinamismo e la perpetuità della natura ne sono un esempio lampante. La ciclicità dei fenomeni naturali, infatti, è una cartina al tornasole del ruolo nevralgico ricoperto dal progresso nell’escatologia concettuale di uno sviluppo temporale, lineare e costante. Criticare ciecamente il progresso dell’umanità, ritenendolo illogico o addirittura inutile, significa dimenticare che la natura, il mondo e la realtà delle cose sono totalmente condizionati dalla ciclicità. Progredire significa avanzare di grado, passare da uno stadio all’altro attraverso trasformazioni necessarie.

Fin dall’antichità, l’uomo non ha fatto altro che progredire inventando nuove tecniche di sopravvivenza. Il leitmotiv dell’esistenza umana è, senza ombra di dubbio, contornato, edulcorato e rinvigorito dalla volontà di sviluppare nuove e migliori condizioni di vivibilità terrestri. Non a caso, infatti, il progresso è espressione delle trasformazioni e dei conflitti della realtà. Fin dai tempi più remoti, l’umanità ha dimostrato di avere innate attitudini creative ed evolutive. La storia, infatti, ci ha reso edotti dell’esistenza di un fil rouge che lega l’uomo al progresso e che, al contempo, santifica e fortifica l’immagine di un mondo illuminato e governato da un moto perpetuo ascensionale.

Tuttavia, non c’è mai stata un’epoca in cui gli intellettuali del momento non abbiano criticato ripetutamente la modernità e lo sviluppo. Gli intellettuali d’occidente hanno sempre giudicato in modo sprezzante il capitalismo e la sua verve innovativa. In particolare, il “culturame italiota” d’impronta tardo-sessantottina non ha mai accolto di buon grado l’avvento della modernità.

Forse, in certi salotti culturali, a cavallo tra ‘68 e ‘75, si respirava un’aria troppo misoneista. La caccia alle stregonerie scientifiche di fine secolo, per molti segnò l’inizio di una nuova era catartica. Molti (forse troppi) intellettuali si scagliarono contro la tecnologia, demonizzandone e biasimandone ogni aspetto, anche il più limpido e cristallino; in altre parole la sua lampante funzionalità. In troppi restarono avvinghiati alla tradizione. In pochi riuscirono a essere lungimiranti. Qualcuno, però, ebbe modo di percepire nell’aria quello strano profumo di svolta che di lì a poco avrebbe condotto la nazione, verso gli allori di un insperato e stupefacente sviluppo socio-economico. Qualcun altro, invece, utilizzò il progresso come strumento atto ad inasprire il proprio sdegno verso alcune correnti politiche, ree di essere inette e filo consumistiche; ergo, troppo “tolleranti”.

Al di là delle dicotomie mai sopite tra i guelfi e ghibellini dell’epoca moderna, c’è un dato, tutt’altro che allarmante, su cui ritengo opportuno soffermarmi. L’Italia di oggi, non è altro che una conseguenza logicamente prevedibile delle idee pre-unitarie e post-belliche che, a torto o a ragione, l’hanno dapprima “rifondata”, poi ricostituita.

La nostra Italia, che si voglia o no, è stata rinvigorita e infervorata dalle idee europeiste di Mazzini e, in seguito, risollevata dalle ceneri e ricostruita dalle fondamenta grazie al supporto degli Usa. Sicché, la nostra Italietta, ne ha vissute e come di trasformazioni storico-sociali. Trasformazioni che, tuttavia, l’hanno resa di gran lunga più ospitale rispetto al passato.

In precedenza ho chiarito che, per certi versi, il progresso, giacché protagonista indiscusso della ciclicità del mondo e della natura, coincide con le trasformazioni della realtà. L’Italia, dicevo, ha subito (del resto come la gran parte delle nazioni occidentali) diverse metamorfosi antropologiche, economiche e culturali.

Nell’Ottocento la nostra nazione era avvolta da una nefasta nube di arretratezza che le impediva di stare al passo col resto d’Europa. Un’economia prevalentemente rurale e una società contornata dal dissidio storico tra baroni latifondisti e contadini, contribuivano a rendere non del tutto illogiche le pretese rivoluzionarie avanzate da alcune frange d’insorti.

Tuttavia, nemmeno i moti del 1848 servirono granché. La prima vera trasformazione italiana trasse origine da due eventi sintomatici: la seconda rivoluzione industriale, che a differenza della prima, scalfì anche il Bel Paese; e l’unificazione garibaldina.

Dopo questi eventi, l’Italia rurale si trasformò in pre-industriale, rinnovando seppur parzialmente la propria struttura sociale. Fu solo in seguito ai due conflitti mondiali e alla caduta del fascismo, però, che l’Italia poté assurgere al rango di Paese in via di sviluppo. Infatti, la spirale evolutiva post-bellica rese possibile il passaggio dal mondo paleo-industriale al mondo pre-industriale.

Invece, dal 1950 in poi, il boom economico e l’avvento dei mass media, contribuirono a innescare un’altra trasposizione evolutiva, forse l’ultima e per certi versi la più attuale: quella del passaggio dal mondo paleoindustriale al mondo consumistico. Ovviamente, ogni salto generazionale è stato accompagnato da studi scientifici, scoperte, invenzioni tecnologiche che hanno contribuito a rendere la mutazione antropologica meno dolorosa e più piacevole.

Dunque, il progresso inteso come avanzamento socio-culturale del mondo e dell’Italia, seppur irruento e talvolta burrascoso, appare tremendamente utile e funzionale alla storia ed ai suoi corsi e ricorsi naturali. Tuttavia, rimpiangere, con enfasi nostalgica e retrograda, il retaggio filo rurale, contadino e bucolico servì solo a obnubilare l’efficienza di ciò che a tutti appariva oramai necessario: la tecnologia. Quasi tutti gli intellettuali dell’epoca postbellica e post anni 50, infatti, si dichiararono nostalgici del passato. Lodarono, apertamente, l’italietta rurale e mai banale. I suoi costumi integri e tradizionalistici, le sue capanne di cartapesta e persino la sua miseria e il suo degrado.

Nel diciottesimo secolo, epoca della prima rivoluzione industriale, il progresso divenne un concetto universale della filosofia della storia. A quei tempi, gli intellettuali e i luminari della scienza erano convinti che il progresso fosse il fine primo ed ultimo della vita. Le loro convinzioni erano fomentate dalla nascente logica materialistica che, di lì a poco, avrebbe condizionato ogni barlume esistenziale e, per certi versi, irretito l’ideologia spiritualistica e religiosa propria delle principali religioni monoteiste. In realtà, con l’avvento delle prime forme di tecnologia, le società occidentali entrarono in un nuovo stadio evolutivo contornato da un unitario imperativo catartico: il miglioramento della realtà.

Fu così che le innovazioni scientifiche e tecnologiche effettuate in quegli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo assursero a rango di creazioni umane, di opere perfette, quindi di emblema della nuova ideologia razionalistica. Tuttavia, l’esaltazione del progresso inteso come motore unico della storia, come trasformazione necessaria dell’uomo e della società, non generò consensi unanimi, bensì dicotomie concettuali.

Alcune correnti di pensiero, infatti, posero l’accento sui difetti e sulle deleterie conseguenze del progresso. Uno dei principali accusatori di tale logica evolutiva fu Rousseau, il quale in più circostanze ebbe modo di descrivere quali fossero i limiti e le tautologie di questa esasperazione tecnico-scientifica accecante, fuorviante e incapace di ipostatizzare quel progresso morale cui la società e l’uomo, invece, devono aspirare.

Malgrado ciò, i fautori del credo modernista e filo-progressista continuarono imperterriti ad inventare, creare e produrre nuove e salvifiche realtà in cui l’uomo potesse identificarsi. Nel frattempo, crebbero a dismisura gli adepti della confraternita del progresso che, da semplici fautori o simpatizzanti protesero a divenire veri e propri fedeli di un credo ormai supportato e reso sublime da invenzioni sempre più importanti. Si pensi all’elettricità ed alla macchina a vapore, ma anche al telegrafo ed alle prime automobili. A cavallo tra il XIX e il XX sec, i miracoli della scienza crebbero a dismisura.

Tuttavia, più il progresso avanzava di grado e più il timore e la prudenza delle frange filo-tradizionaliste aumentavano. Non è un caso, infatti, che in quegli anni presero piede le teorie filosofiche del pessimismo e dell’irrazionalismo, entrambe fautrici d’imperativi categorici totalmente contrari al progresso e al positivismo. Al di là delle critiche, però, il progresso continuò a rivestire un ruolo da protagonista.

Da motore immobile delle trasformazioni sociali, divenne ben presto colonna portante della nuova visione modernistica della realtà: la secolarizzazione. Bisogna dire che nemmeno le due guerre mondiali lo affievolirono in maniera irreversibile. Anzi, probabilmente, i conflitti bellici contribuirono a dar man forte alla causa della trasformazione generazionale più di quanto si potesse immaginare.

Si pensi al boom economico postbellico e alla nascita del consumismo di massa, del benessere diffuso, della democrazia e della tecnocrazia. Si pensi all’invenzione della penicillina e degli altri farmaci che hanno contribuito al benessere psicofisico dell’umanità, garantendone processi esistenziali notevolmente migliori rispetto a quelli offerti dalle epoche precedenti. Insomma, il novecento ebbe il merito di far da cornice all’osmosi tra progresso e sopravvivenza umana, trasformando quest’ultima in “diritto al benessere”.

Tuttavia, i fautori della critica del progresso non smisero di inveire contro l’innovazione tecnico-scientifica né tanto meno di avversare l’idealtipo filosofico della modernizzazione. Infatti, dopo i lauti consensi generati dal boom degli anni cinquanta, in Italia e negli altri Paesi occidentali e industrializzati, crebbero a dismisura nuovi e prolifici epigoni della lotta allo sviluppo.

Pasolini ucciso dal progresso: ecco perché e cosa si intende con questa affermazione

Il principale accusatore del nuovo ordine del progresso occidentale fu, senza ombra di dubbio, lo scrittore e regista Pierpaolo Pasolini.

Pasolini era un catto-comunista.

Nel saggio Lettere Luterane (pag 28 paragrafo quarto), rivolgendosi a Gennariello, suo interlocutore immaginario, scrive : «Io non credo in questa storia e in questo progresso. Non è vero che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l’individuo sia le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata. La sua accettazione realistica è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti. La regressione e il peggioramento non vanno accettati. Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile».

La carica emotiva delle parole di Pasolini rappresenta uno dei simboli della lotta che gli intellettuali dell’epoca moderna hanno intrapreso e deciso di fomentare nel nome di una sublime elevazione spirituale e culturale dell’uomo. Questa sorta di romanticismo post-vinetiano, anti-capitalista e filo-spiritualista in realtà, a torto o a ragione, diventa un vero e proprio cavallo di battaglia per il culturame post-sessantottino.

Tant’è che nel giro di qualche decennio riesce ad annichilire definitivamente l’idealtipo di progresso come fine ultimo della storia e, contemporaneamente, a sopire gli alterchi e le polemiche fomentate contro il mondo della scienza. Dunque, dal 1970 in poi, il progresso perde gran parte della sua sublime lucentezza, assumendo le ridotte sembianze di “mezzo portatore di benessere.”

La critica del progresso di Pasolini, così, assurge a rango di faro destinato ad illuminare la dritta via che una società corretta deve percorrere per purificarsi dalle inezie e dalle illusioni della materia. Tuttavia, la vera critica del progresso non era ancora nata. La sua, non era altro che un’idea embrionale ed estrema. L’autore delle Ceneri di Gramsci, infatti, fomenta critiche aprioristiche e, per certi versi, misoneistiche che scalfiscono solo in maniera puramente speculare il reale problema del progresso.

Il principale problema del progresso, infatti, non è il progresso in sé, ma la maniera attraverso la quale esso viene ad esistenza. I problemi del mondo, non possono risolversi in una cieca opposizione al progresso, ma in  una opposizione al progresso cieco.  Mi trovo perfettamente d’accordo con Pasolini nel criticare il consumismo inteso come culto del superfluo, dell’abbondanza e delle idiozie culturali. Ma non posso condividere la sua idea di progresso inteso quale regressione e degradazione della storia umana.

A dire il vero, questa idea mi sembra piuttosto contraddittoria e tautologica. Non è vero che il mondo stia cambiando in peggio, che le innovazioni tecnologiche e i successi scientifici siano a priori idonei a innescare meccanismi inconsci di regressione. Non era vero allora, cioè nel 1975 e non è vero oggi. Il vero scandalo sarebbe rappresentato dal lasciare tutto immutato nel tempo.

Se ad esempio le fabbriche smettessero di produrre, gli operai di lavorare e le macchine di funzionare, allora si che dovremmo preoccuparci. Perché in un simile scenario apocalittico, gli uomini perderebbero ogni speranza e si abbandonerebbero a pogrom d’impronta filo anarchica. E tale ipotetico atteggiamento non sarebbe né poetico, né letterario, bensì inutilmente sanguinoso.

Ad ogni modo, ritengo sia opportuno non far di tutta l’erba, un fascio. La mia pseudo critica non è altro che un personalissimo tentativo di avvicinamento alla geniale opera di Pasolini. Pasolini per me resta uno dei geni della letteratura e del pensiero europeo.  Lungi da me, quindi, voler biasimare la libertà culturale e la saggezza profetica e morale dell’autore di una vita  violenta. Con quest’articolo, ahimè, desidero soltanto tentare di comprendere al meglio quale sia il ruolo che il progresso ha assunto dal 1800 ad oggi.  Tuttavia, ritengo sia giusto lottare contro il progresso sregolato ed insensato; cioè criticare il metodo e non l’essenza del progresso.

Non è un caso, infatti, che la vera critica del progresso sia sorta in seguito alle catastrofi nucleari degli anni ottanta. Non è un caso che la scienza, anche dopo tali scempi, abbia continuato imperterrita a intraprendere nuovi e sublimi percorsi di conoscenza. Non è un caso, inoltre, che eventi come quelli di Cernobyl abbiano contribuito ad irretire non l’idea del progresso tout court, bensì la frenesia, l’audacia, la sregolatezza e gli eccessi dei tecnocrati moderni. Del resto, oggigiorno criticare il progresso vuol dire metterne in risalto un aspetto necessario ed irreversibile : la sostenibilità.

Pasolini: Scienziato e Luterano

«C’è stata una certa illusione alcuni anni fa-una delle tante stupide illusioni di alcuni anni fa- che la razza umana appunto attraverso la scienza medica e il miglior nutrimento migliorasse. Che i ragazzi fossero più forti, più alti ecc. breve illusione. La nuova generazione è infinitamente più debole, brutta, triste, pallida, malata di tutte le precedenti generazioni che si ricordino. Le cause di ciò sono molte: una di queste cause è la presenza, tra i giovani, di coloro che avrebbero dovuto morire. Questi sono molti, in certi casi (Sud e classi povere) la percentuale è altissima. Tutti costoro o sono depressi o sono aggressivi, ma sempre in modo o penoso o sgradevole. Niente può cancellare l’ombra che una anormalità sconosciuta getta sulla loro vita» – Pasolini, Lettere Luterane.

A pagina 57 delle Lettere Luterane, Pasolini continua ad attaccare il progresso. In un breve articolo, intitolato Vivono, ma dovrebbero essere morti, lo scrittore e regista italiano, obnubilato da un odio pressappoco nefasto, rivolge le sue più languide accuse, stavolta, alla medicina, rea di aver salvato i destinati ad esser morti : “essi mi appaiono invece come una categoria nuova, impensatamente comparsa in Italia da una dozzina d’anni”. Questi destinati ad essere morti, dunque, per Pasolini sarebbero comparsi per la prima volta nel lontano 1950, cioè in pieno boom economico.

Senza l’intervento della scienza e della tecnologia sarebbero morti nella prima infanzia, in quel periodo che si chiama di mortalità infantile. Grazie all’ausilio della medicina, invece, questi poveri bambini sono stati salvati dall’atroce destino che li attendeva. Sono sopravvissuti alla morte, seppur in maniera artificiale. Meglio di niente penserà il lettore. E invece no.

Per Pasolini biasimare il progresso vuol dire far piazza pulita. Infatti, secondo lui, a causa della loro natura artificiale, questi non morti rappresentano una sorta di errore storico : «i figli che nascono oggi non sono più aprioristicamente benedetti. Il giudizio tra benedizione e maledizione è sospeso. Sono però decisamente maledetti coloro che nascono in più».

Pasolini, insomma, pur di dar torto al progresso ed in questo caso alla medicina, tira in ballo la conservazione della specie darwiniana ed il controllo delle nascite, lasciando intuire al lettore quale sia, secondo lui, la strada più adatta per la salvezza dell’umanità : «bisogna evitare, perché l’umanità si salvi, l’eccessivo prevalere delle nascite sulle morti». Con questo sconcertante pensiero, lo scrittore emiliano, assurgendo a rango di “scienziato”, arriva a sostenere che tutti i bambini salvati dalla medicina e sopravvissuti a una morte certa siano infelici, perché non amati, e a causa di ciò tendano a diventare depressi o aggressivi; cioè delle mine vaganti abbandonate nel bel mezzo della giungla societaria.

Ora, mi chiedo e vi chiedo, cosa è più assurdo: criticare il progresso e la medicina? Oppure l’idea secondo cui chi nasce grazie alla scienza sia un errore? Io ritengo assolutamente più assurda la critica che Pasolini rivolge alla scienza medica. Con tutta onestà, credo sia un po’ troppo contraddittorio criticare il progresso (perché immorale), e dichiararsi al contempo favorevole al controllo delle nascite. In fin dei conti, chi siamo noi per decidere chi debba o meno venire al mondo? 

Alla luce di quanto riportato, intendo concludere questo “excursus” sul progresso manifestando tutto il mio dissenso nei confronti del Pasolini Scienziato di pagina 57. Probabilmente, questo scritto datato 22 maggio 1975 decretò la sua morte “etica e morale”.  

Sebbene io stesso non sia uno scienziato, ma un semplice osservatore della realtà, devo ammettere però che la più atroce delle blasfemie che il progresso possa ipostatizzare sia l’infervoramento degli animi di coloro che, servendosi della scienza, credono di poter giudicare il valore ed il senso di una vita umana. Nessuno ha il diritto di giudicare il senso dell’altrui esistenza. Ogni essere umano viene al mondo per una ragione ben precisa. Del resto, se Pasolini avesse ragione, allora tutte le persone nate con tecniche mediche artificiali dovrebbero essere inserite nella categoria-ghetto dei destinati a esser morti, sarebbero condannate a vivere d’infelicità nella fossa dei serpenti e a chiedersi se la loro venuta al mondo sia stata veramente desiderata o no.

Tuttavia, non potendo dimostrare se Pasolini abbia torto o no, non mi resta che spiegare la ragione per la quale, dopo aver letto attentamente le sue opere, ho capito di non essere un intellettuale. Non lo sono perché, accetto il sistema senza identificarmi con esso. Non lo sono perché credo nel progresso e nella necessità delle sue trasformazioni.

Non lo sarò perché il futuro sarà sempre meno accettabile e le sue trasformazioni sempre più stravolgenti. Non lo sono perché a differenza di Pasolini io non m’identifico nella poesia o nella letteratura senza accettare la realtà delle cose o biasimando la vita dei non morti, ma accetto razionalmente la realtà senza identificazione alcuna. Ed infine non sono un intellettuale perché credo che il mondo vada cambiato.

Per tali ragioni, io non sono e non sarò mai un intellettuale.

© Riproduzione Riservata
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Dalle origini al 2004 Controcampus nacque nel Settembre del 2001 quando Mario Di Stasi, allora studente della facoltà di giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Salerno, decise di fondare una rivista che offrisse la possibilità a tutti coloro che vivevano il campus campano di poter raccontare la loro vita universitaria, e ad altrettanta popolazione universitaria di conoscere notizie che li riguardassero. Il primo numero venne diffuso all’interno della sola Università di Salerno, nei corridoi, nelle aule e nei dipartimenti. Per il lancio vennero scelti i tre giorni nei quali si tenevano le elezioni universitarie per il rinnovo degli organi di rappresentanza studentesca. In quei giorni il fermento e la partecipazione alla vita universitaria era enorme, e l’idea fu proprio quella di arrivare ad un numero elevatissimo di persone. Controcampus riuscì a terminare le copie date in stampa nel giro di pochissime ore. Era un mensile. La foliazione era di 6 pagine, in due colori, stampate in 5.000 copie e ristampa di altre 5.000 copie (primo numero). Come sede del giornale fu scelto un luogo strategico, un posto che potesse essere d’aiuto a cercare fonti quanto più attendibili e giovani interessati alla scrittura ed all’ informazione universitaria. La prima redazione aveva sede presso il corridoio della facoltà di giurisprudenza, in un locale adibito in precedenza a magazzino ed allora in disuso. La redazione era quindi raccolta in un unico ambiente ed era composta da un gruppo di ragazzi, di studenti (oltre al direttore) interessati all’idea di avere uno spazio e la possibilità di informare ed essere informati. Le principali figure erano, oltre a Mario Di Stasi: Giovanni Acconciagioco, studente della facoltà di scienze della comunicazione Mario Ferrazzano, studente della facoltà di Lettere e Filosofia Il giornale veniva fatto stampare da una tipografia esterna nei pressi della stessa università di Salerno. Nei giorni successivi alla prima distribuzione, molte furono le persone che si avvicinarono al nuovo progetto universitario, chi per cercarne una copia, chi per poter partecipare attivamente. Stava per nascere un nuovo fenomeno mai conosciuto prima, Controcampus, “il periodico d’informazione universitaria”. “L’università gratis, quello che si può dire e quello che altrimenti non si sarebbe detto”, erano questi i primi slogan con cui si presentava il periodico, quasi a farne intendere e precisare la sua intenzione di università libera e senza privilegi, informazione a 360° senza censure. Il giornale, nei primi numeri, era composto da una copertina che raccoglieva le immagini (foto) più rappresentative del mese, un sommario e, a seguire, Campus Voci, la pagina del direttore. La quarta pagina ospitava l’intervista al corpo docente e o amministrativo (il primo numero aveva l’intervista al rettore uscente G. Donsi e al rettore in carica R. Pasquino). Nelle pagine successive era possibile leggere la cronaca universitaria. A seguire uno spazio dedicato all’arte (poesia e fumettistica). I caratteri erano stampati in corpo 10. Nel Marzo del 2002 avvenne un primo essenziale cambiamento: venne creato un vero e proprio staff di lavoro, il direttore si affianca a nuove figure: un caporedattore (Donatella Masiello) una segreteria di redazione (Enrico Stolfi), redattori fissi (Antonella Pacella, Mario Bove). Il periodico cambia l’impaginato e acquista il suo colore editoriale che lo accompagnerà per tutto il percorso: il blu. Viene creata una nuova testata che vede la dicitura Controcampus per esteso e per riflesso (specchiato), a voler significare che l’informazione che appare è quella che si riflette, quello che, se non fatto sapere da Controcampus, mai si sarebbe saputo (effetto specchiato della testata). La rivista viene stampa in una tipografia diversa dalla precedente, la redazione non aveva una tipografia propria, ma veniva impaginata (un nuovo e più accattivante impaginato) da grafici interni alla redazione. Aumentarono le pagine (24 pagine poi 28 poi 32) e alcune di queste per la prima volta vengono dedicate alla pubblicità. Viene aperta una nuova sede, questa volta di due stanze. Nel Maggio 2002 la tiratura cominciò a salire, fu l’anno in cui Mario Di Stasi ed il suo staff decisero di portare il giornale in edicola ad un prezzo simbolico di € 0,50. Il periodico era cosi diventato la voce ufficiale del campus salernitano, i temi erano sempre più scottanti e di attualità. Numero dopo numero l’obbiettivo era diventato non più e soltanto quello di informare della cronaca universitaria, ma anche quello di rompere tabù. Nel puntuale editoriale del direttore si poteva ascoltare la denuncia, la critica, la voce di migliaia di giovani, in un periodo storico che cominciava a portare allo scoperto i risultati di una cattiva gestione politica e amministrativa del Paese e mostrava i primi segni di una poi calzante crisi economica, sociale ed ideologica, dove i giovani venivano sempre più messi da parte. Disabilità, corruzione, baronato, droga, sessualità: sono questi alcuni dei temi che il periodico affronta. Nel 2003 il comune di Salerno viene colto da un improvviso “terremoto” politico a causa della questione sul registro delle unioni civili, “terremoto” che addirittura provoca le dimissioni dell’assessore Piero Cardalesi, favorevole ad una battaglia di civiltà (cit. corriere). Nello stesso periodo Controcampus manda in stampa, all’insaputa dell’accaduto, un numero con all’interno un’ inchiesta sulla omosessualità intitolata “dirselo senza paura” che vede in copertina due ragazze lesbiche. Il fatto giunge subito all’attenzione del caporedattore G. Boyano del corriere del mezzogiorno. È cosi che Controcampus entra nell’attenzione dei media, prima locali e poi nazionali. Nel 2003 Mario Di Stasi avverte nell’aria segnali di cambiamento sia della società che rispetto al periodico Controcampus. Pensa allora di investire ulteriormente sul progetto, in redazione erano presenti nuove figure: Ernesto Natella, Laura Muro, Emilio C. Bertelli, Antonio Palmieri. Il periodico aumenta le pagine, (44 pagine e poi 60 pagine), è stampato interamente a colori, la testata è disegnata più piccola e posizionata al lato sinistro della prima pagina. La redazione si trasferisce in una nuova sede, presso la palazzina E.di.su del campus di Salerno, questa volta per concessione dell’allora presidente dell’E.di.su, la Professoressa Caterina Miraglia che crede in Controcampus. Nello stesso anno Controcampus per la prima volta entra nel mondo del Web e a farne da padrino è Antonio Palmieri, allora studente della facoltà di Economia, giovane brillante negli studi e nelle sue capacità web. Crea un portale su piattaforma CMS realizzato in asp. È la nascita di www.controcampus.it e l’inizio di un percorso più grande. Controcampus è conosciuto in tutti gli atenei italiani, grazie al rapporto e collaborazione che si instaura con gli uffici stampa di ogni ateneo, grazie alla distribuzione del cartaceo ed alla nuova iniziativa manageriale di aprire sedi - redazioni in tutta Italia. Nel 2004 Mario Di Stasi, Antonio Palmieri, Emilio C. Bertelli e altri redattori del periodico controcampus vengono eletti rappresentanti di facoltà. Questo non permette di sporcare l’indirizzo e linea editoriale di Controcampus, che resta libera da condizionamenti di partito, ma offre la possibilità di poter accedere a finanziamenti provenienti dalla stessa Università degli Studi di Salerno che, insieme alla pubblicità, permettono di aumentare gli investimenti del gruppo editoriale. Ciò nonostante Controcampus rispetto alla concorrenza doveva contare solamente sulle proprie forze. La forza del giornale stava nella fiducia che i lettori avevano ormai riposto nel periodico. I redattori di Controcampus diventarono 15, le redazioni nelle varie università italiane aumentavano. Tutto questo faceva si che il periodico si consolidasse, diventando punto di riferimento informativo non soltanto più dei soli studenti ma anche di docenti, personale e politici, interessati a conoscere l’informazione universitaria. Gli stessi organi dell’istruzione quali Miur e Crui intrecciavano rapporti di collaborazione con il periodico. Dal 2005 al 2009 A partire dal 2005 Controcampus e www.controcampus.it ospitano delle rubriche fisse. Le principali sono: Università, la rubrica dedicata alle notizie istituzionali Uni Nord, Uni Centro e Uni Sud, rubriche dedicate alla cronaca universitaria Cominciano inoltre a prender piede informazioni di taglio più leggero come il gossip che anche nel contesto universitario interessa. La redazione di Controcampus intuisce che il gossip può permettergli di aumentare il numero di lettori e fedeli e nasce cosi da controcampus anche una iniziativa che sarà poi riproposta ogni anno, Elogio alla Bellezza, un concorso di bellezza che vede protagonisti studenti, docenti e personale amministrativo. Dal 2006 al 2009 la rivista si consolida ma la difficoltà di mantenete una tiratura nazionale si fa sentire anche per forza della crisi economia che investe il settore della carta stampata. Dal 2009 ad oggi Nel maggio del 2009 Mario Di Stasi, nel tentativo di voler superare qualsiasi rischio di chiusura del periodico e colto dall’interesse sempre maggiore dell’informazione sul web (web 2.0 ecc), decide di portare l’intero periodico sul web, abbandonando la produzione in stampa. Nasce un nuovo portale: www.controcampus.it su piattaforma francese Spip. Questo se da un lato presenta la forza di poter interessare e raggiungere un vastissimo pubblico (le indicizzazioni lo dimostrano), dall’altro lato presenta subito delle debolezze dovute alla cattiva programmazione dello stesso portale. Nel 2012 www.controcampus.it si rinnova totalmente, Mario Di Stasi porta con se un nuovo staff: Pasqualina Scalea (Caporedattore), Dora Della Sala (Vice Caporedattore), Antonietta Amato (segreteria di Redazione) Antonio Palmieri (Responsabile dell’area Web) Lucia Picardo (Area Marketing), Rosario Santitoro ( Area Commerciale). Ci sono nuovi responsabili di area, ciascuno dei quali è a capo di una redazione nelle diverse sedi dei principali Atenei Italiani: sono nuovi giovani vogliosi di essere protagonisti in un’avventura editoriale. Aumentano e si perfezionano le competenze e le professionalità di ognuno. Questo porta Controcampus ad essere una delle voci più autorevoli nel mondo accademico. Nel 2013 www.controcampus.it si aplia, il portale d'informazione universitario, diventa un network. Una nuova edizione, non più un periodico ma un quotidiano anzi un notiziario in tempo reale. Nasce il Magazine Controcampus, nascono nuovi contenuti: scuola, università, ricerca, formazione e lavoro. Nascono ulteriori piattaforme collegate alla webzine, non solo informazione ma servizi come bacheche, appunti, ricerca lavoro e anche nuovi servizi sociali. Certo le difficoltà sono state sempre in agguato ma hanno generato all’interno della redazione la consapevolezza che esse non sono altro che delle opportunità da cogliere al volo per radicare il progetto Controcampus nel mondo dell’istruzione globale, non più solo università. Controcampus diventa sempre più grande restando come sempre gratuito. Un nuovo portale, un nuovo spazio per chiunque e a prescindere dalla propria apparenza e provenienza. Sempre più verso una gestione imprenditoriale e professionale del progetto editoriale, alla ricerca di un business libero ed indipendente che possa diventare un’opportunità di lavoro per quei giovani che oggi contribuiscono e partecipano all’attività del primo portale di informazione universitaria. Sempre più verso il soddisfacimento dei bisogni dei lettori che contribuiscono con i loro feedback a rendere Controcampus un progetto sempre più attento alle esigenze di chi ogni giorno e per vari motivi vive il mondo universitario. Leggi tutto