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Professione docente e carcere, intervista alla direttrice del Corso di Alta Formazione Professionale

Antonietta Amato 18 Dicembre 2012
A. A.
21/12/2024

''Professione docente e carcere: insegnare, apprendere educare'' è il nome del Corso di Alta Formazione partito nell'anno accademico 2010-11, rivolto agli insegnanti e agli educatori.

Grazie al finanziamento della Fondazione del Monte, si è avuto la possibilità di abbattere i costi d’iscrizione (il costo è di 400€); il problema più grande che c’è in questo tipo di corsi è rappresentato proprio dal suo costo, il target delle persone a cui è rivolto è composto da insegnati ed educatori, che hanno un budget molto limitato, che non permette loro di accedere a tutti i tipi di corsi di formazione.

Trentadue persone hanno avuto modo, quindi, di partecipare al corso di alta formazione, oltre ai partecipanti sono stati ammessi alle lezioni anche degli uditori. Il corso è nato come collaborazione forte tra la Facoltà di Scienze della Formazione e l’Istituto Penale Minorile  di Bologna ”Il Pratello. Un esperienza particolare per insegnanti innanzitutto, ma anche per educatori. Il corso è stato, inoltre, segnalato da una rete europea che si occupa di carcere come una dei migliori esempi di buona prassi per i processi di evoluzione dei minori all’interno del carcere.

Abbiamo intervistato la professoressa Roberta Caldin, direttrice del corso di alta formazione, vice-presidente e professore straordinario della scuola di Psicologia e Scienze della Formazione dell’Università di Bologna.

La figura dell’insegnate è tra le più importanti nella vita di ognuno di noi. In realtà particolari, come quella vissuta in un Istituto Penale Minorile, la figura dell’insegnate diventa fondamentale per poter portare avanti un programma di riabilitazione per i ragazzi ospitati all’interno della struttura. Quali sono i punti chiave che il corso di alta formazione, di insegnare al docente che lavora in queste realtà?

Direi che sono fondamentalmente due: uno è una attenzione forte sulla didattica che ha cura di chi apprende e non solo di chi insegna, quindi una didattica molto interattiva, molto concreta, basata sulla situazione dello studente in quel momento, che non è la situazione dello studente della scuola pubblica o di un liceo classico della città di Bologna. Priorità è che l’adulto non può assolutamente perdere l’incontro con il minore, quindi la didattica diventa motivo di aggancio per far si che la scuola sia una vera e propria proposta di riscatto educativo, cosa che mi hannotestimoniato i minori del ”Pratello” . Quindi da una parte la didattica, dall’altra parte la relazione educativa, cioè un potenziamento forte della relazione di aiuto che tenga conto del contesto, ma che sia una proposta davvero irrinunciabile, un incontro significativo tra un adulto orientante e i minori, che avvenga e si realizzi anche se i minori incontrano quell’adulto per pochissimo tempo. Un altro aspetto è aver voluto il tirocinio, perchè non sempre in questo tipo di corsi di alta formazione avvengono i tirocini, ma io la ritenevo un’esperienza irrinunciabile. Un tirocinio di 200 ore negli istituti penali minori e non.

Quali sono le caratteristiche che non devono, in alcun modo mancare, a tutti coloro che vogliono fare questo lavoro?
Credo che oltre ad essere un buon docente, si debba essere anche un adulto che sa incassare bene la frustrazione e la rabbia che riceve dagli ospiti dell’istituto penale che incontra. I ragazzi non amano subito il loro maestro o quello che gli si insegna, ma riversano sul docente una serie di disagi e di vissuti, a volte anche violenza all’interno del carcere, per cui in realtà l’adulto deve essere capace di accogliere questa rabbia e di restituirla avendola fatta progredire in una proposta educativa. Quindi, un adulto non impotente, capace di ricevere la frustrazione, perchè sa che questa è una possibilità di ulteriore proposta da restituire, un adulto che sa farsi fare la guerra, ma che è capace di cambiare questa situazione in una proposta didattica. Questo è il vero segreto di chi riesce a insegnare in situazioni chiuse come quelle del carcere.

Gli ospiti dell’Istituto vengono tutti da realtà molto diverse, sia per quanto riguarda le varie esperienze personali di ognuno di loro, sia per quanto riguarda le varie culture di appartenenza. Gli insegnanti che lavorano all’interno di Istituto Penale Minorile in che modo devono tenere conto delle realtà di provenienza?
Ci sono dei veri e propri insegnamenti sulla pedagogia interculturale e sulla mediazione. Queste parti sono state affrontate in maniera molto approfondita, per tenere conto del fatto che molti dei detenuti sono migranti e non sono autoctoni.

Come Lei ha già detto, molti dei ragazzi sono stranieri, come affrontate il problema della lingua?

Quello della lingua è un problema molto serio, infatti, spesso capita che i minori che arrivano nell’istituto non sanno una parola d’italiano e qui la cosa migliore è proprio avere da una parte dei mediatori culturali e dall’altra riuscire a farli stare all’interno di un contesto, come quello della scuola in carcere, dove c’è la possibilità di una comunicazione frequente. Questo porta il ragazzo ad imparare per cause di forza maggiore la lingua.

Il rapporto che il docente ha con lo studente è fondamentale per il buon esito dell’educazione e dell’insegnamento. Parlando di ragazzi detenuti questo rapporto è di difficile instaurazione, Quali sono i metodi base per poter guadagnare la fiducia dei ragazzi?
Innanzitutto si deve fare riferimento alla ”relazione di aiuto”. Ci sono dei principi nella relazione di aiuto che vanno salvaguardati, potrebbe essere che inizialmente ci si debba accontentare di stare nella dimensione della prossimità, cioè inizialmente non si può proporre la disciplina, ma si devono passare i primi 10 giorni ad ascoltare quello che i giovani propongono, la rabbia e la frustazone che i ragazzi propongono. Si deve cercare di bilanciare bene quelle che sono delle modalità di carattere protettivo e di accoglienza con quelle che sono delle modalità di carattere emancipativo. Quindi ci sono quelle che sono le vere fasi dell’incontro con l’altro, in cui all’inizio le modalità protettive sono importanti per stabilire l’alleanza e quindi l’accoglienza, la rassicurazione o lo stare semplicemente lì con loro, senza voler impartire nessun insegnamento, però nella testa dell’educatore deve essere sempre presente la parte progettuale. Cioè l’educatore deve sempre essere certo di avere in mente di fare qualcosa per cambiare lo status del minore. Anche da un punto di vista dell’attegiamento mentale, farli venire voglia di conoscere, di studiare. Perchè l’educazione non è tale se non porta ad un cambiamento. Quindi il bilanciamento delle modalità protettive ed emancipative; l’insegnante deve averle ben chiare e deve saperle dosare, sapendo che non può fare a meno ne dell’una ne dell’altra.

Gli agenti penitenziari che lavorano all’interno dell’Istituto sono coinvolti all’interno del lavoro degli insegnanti? O almeno c’è un tipo di corso di formazione che è a loro dedicato? Dopotutto, anche loro hanno un ruolo importantissimo nella vita di questi ragazzi, almeno fino a che si troveranno ospiti all’interno dell’istituto.
Questo per me è stato un punto critico e il non riuscire a coinvolgere gli agenti penitenziari è stata un po’ una sconfitta. Però,  mi sono un po’ informata e so che gli agenti, proprio per il carico di turnazione e perchè sono in sotto organico, non riescono ad andare nemmeno alle riunioni a cui sono obbligati a partecipare. Quindi, se io riuscissi a fare un altro corso di formazione di qualche tipo, prenderei come fuoco d’attenzione proprio quello degli agenti carcerari, poichè penso che siano l’anello più importante nel rapporto con il minore carcerato e al contempo sono quelli che hanno meno fruito della formazione e per certi aspetti meno considerati.

Che lei sappia gli agenti penitenziari ricevono una sorta di insegnamento di pedagogia o psicologia?
No, so che è stato fatto qualcosa a livello ministeriale, ma solo ed esclusivamente sulla parte normativa, ma mai sull’aspetto educativo e pedagogico. Per me sono l’anello più importante e al contempo più abbandonato del sistema carcerario.

Questo corso di alta formazione permette la creazione di educatori ed insegnati altamente preparati e capaci di portare tutto il proprio aiuto ai ragazzi che sono costretti a vivere questa esperienza in un contesto tale da rendere decisiva la formazione scolastica

© Riproduzione Riservata
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Antonietta Amato Studentessa alla facoltà di Economia, è entrata nel mondo del giornalismo giovanissima. Ha partecipato in qualità di direttrice ad un progetto che prevedeva la diffusione locale di un giornale prodotto completamente da ragazzi, i cui proventi sono stati devoluti interamente all’Unicef . Animata anche dalla passione per la scrittura, si è diplomata con una buona media al liceo classico, si è iscritta alla facoltà di economia e gestisce un’attività commerciale, ma continua a coltivare il sogno di poter lavorare un giorno in un’azienda che faccia dell’informazione apartitica la sua capacità distintiva. Il suo compito a Controcampus prevede la risoluzione di tutte le questioni relative alla organizzazione amministrativa, gestione utenze presso la testata: sarà ben disponibile a dare ai nostri collaboratori tutte le relative informazioni. Leggi tutto